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(Un grazie a Orietta Anibaldi e Fabio Lanari) 7° episodio firmato da Alejandro Gonzáles Iñárritu. Schermo nero, coi suoni dei rumori di strada e delle cronache sull'11 settembre da tutto il mondo. Brevi flash visivi sui corpi che si gettano dalle Torri. Alla fine, sullo schermo completamente bianco, una didascalia: ''La luce di Dio ci guida o ci acceca?" Buio, buio interminabile e insostenibile per un tempo ricolmo solo delle urla di gente inebetita mentre assiste implorante allo sfacelo. '"My God, oh my God". Ma nessun Dio risponde all'appello, nessun Dio ha mai risposto, né ad Auschwitz, né a Lisbona, né in alcun'altra situazione dove l'essere umano ha cercato d'amnistiare la propria condanna alla "morte e morte di croce" (Filippesi 2, 8). Il buio è quello dell'assurdo e del nonsenso, dell'incomprensibilità immonda e indegna sia del vivente che dell'inanimato assoggettati al medesimo destino cosmico del tracollo. Si sfracellano le persone e collassano le torri, abbattute in un'unità tragittuale: "Polvere sei e polvere tornerai" (Genesi 3, 19 || Qohèlet 3, 20). Oltre all'immane oscurità dell'inspiegato e dell'irrazionale, solo attimi d'intuizione oculare della gettatezza nel vuoto anzi nel vacuo: i corpi e gl'edifici irrompono e fendono il nero per mostrare la propria strutturale caducità. L'osceno viene concesso allo sguardo solo per frazioni di secondo, tanto ne siamo abbagliati fino all'assuefazione. Addirittura lo spot per una playstation mostrava una gestante con l'utero che sputava il feto direttamente nella tomba spalancata: "Ogni nuova vita concepita è sempre già abbastanza vecchia da poter morire subito". Ma la genialità di Gonzáles Iñárritu, in assoluta antitesi rispetto allo stile dei suoi lungometraggi con o senza la collaborazione d'Arriaga, consiste nel fatto che non ha voluto creare alcunché, mettere in posa niente di niente, dipingere, inscenare, fingere zero. Gl'è bastato riciclare delle riprese reali, delle immagini documentaristiche sottraendole al chiacchiericcio del politichese col suo sermoneggiare sulle statistiche da becchini. Il regista messicano ha optato radicalmente, qui anche sul piano della forma espressiva e dello script, per il giudizio sul nostro statuto ontologico: "L'orrore. L'orrore", se si vuole citare il celebre epilogo d'"Apocalypse now" (1979), dove tuttavia Coppola non ha saputo trattenersi dallo sfarzo e la magniloquenza d'una rappresentazione perversamente fascinosa e seducente. E ora, giunti al disincanto, ci si tormenta in cerca d'un riscatto. Puro distillato d'angoscia, certo. D'altra parte, nonché sino a prova contraria, la cecità elusiva non ha mai agevolato l'individuazione d'una diagnosi, d'una cura, d'una soluzione radicale.
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