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Anno edizione: 2016
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Tra un best seller e l'altro, Emanuel Carrère ha trovato il tempo (due settimane) di recarsi a Calais per scrivere una sorta di pamphlet su ciò che si trovava a osservare intorno a sé. L'intenzione che lo ha motivato a redigere questo reportage sul campo è stata quella di «rivolgere lo sguardo alla città e ai suoi abitanti», di sondarne umori e rabbie, di verificare l'esistenza o meno di episodi di razzismo o intolleranza, di documentare lo sfinimento economico dei settantamila abitanti "costretti" ad accogliere «settemila disgraziati ridotti allo stremo, che dormono in tende di fortuna, nel fango, al freddo e che ispirano, a seconda del carattere di ciascuno, apprensione, pietà o sensi di colpa». In effetti, quello di recarsi nella cosiddetta "Giungla", dove sono ammassate famiglie intere che vivono «un incubo di miseria e di insalubrità, in cui succedono cose terribili, regolamenti di conti e stupri», è l'ultima cosa che Carrère fa, procrastinando agli ultimi momenti del suo soggiorno l'impatto con la sofferenza. Prima, cerca di comprendere quanto profondo sia il malessere dei residenti francesi, ridotti alla disoccupazione e a un'inerzia rassegnata, con la loro fiorente attività turistica andata a rotoli e con la secolare industria del merletto completamente decaduta. Lo scrittore visita il teatro cittadino, siede nei caffè, passeggia lungo le banchine del porto, chiacchiera con giovani e vecchi, interroga intellettuali e commercianti, poliziotti e giornalisti, annusando passioni e ossessioni, animosità e slanci solidali. Sembra non esista nessuna soluzione per riportare Calais a una vita che abbia le sembianze della normalità: per lo meno, Carrère non sa proporre nulla. Si limita ad accusare il trattato di Le Touquet firmato da Francia e Inghilterra nel 2003 di aver provocato un disastro insanabile. Non basta più la comprensione generosa a calmare gli animi avvelenati da una parte e dall'altra: non basta scriverne, nemmeno se si è una celebrità letteraria.
Reportage giornalistico allargato a libro di una manciata di pagine, Carrère si distanzia dai molti colleghi transitati per l’Hotel Meurice e decide di guardare dall'altra parte, non la jungle ma chi vi sta accanto, gli abitanti di Calais e le loro storie. Ne emerge anzitutto una marcata consapevolezza nello sguardo dello scrittore, anche solo sul dove e su chi spostare il racconto. Stile diretto e senza fronzoli per una lettura che diventa assuefazione dalla prima pagina. Carrère conosce magnificamente il suo mestiere (il congegno narrativo che da inizio al libro è una splendida lezione di letteratura) e questo reportage è l’esempio perfetto di cosa possa permettersi uno scrittore, a differenza del semplice giornalista, quando entrambi sono chiamati a fare lo stesso lavoro.
Tra un best seller e l'altro, Emanuel Carrère ha trovato il tempo (due settimane) di recarsi a Calais per scrivere una sorta di pamphlet su ciò che si trovava a osservare intorno a sé. L'intenzione che lo ha motivato a redigere questo reportage sul campo è stata quella di «rivolgere lo sguardo alla città e ai suoi abitanti», di sondarne umori e rabbie, di verificare l'esistenza o meno di episodi di razzismo o intolleranza, di documentare lo sfinimento economico dei settantamila abitanti "costretti" ad accogliere «settemila disgraziati ridotti allo stremo, che dormono in tende di fortuna, nel fango, al freddo e che ispirano, a seconda del carattere di ciascuno, apprensione, pietà o sensi di colpa». In effetti, quello di recarsi nella cosiddetta "Giungla", dove sono ammassate famiglie intere che vivono «un incubo di miseria e di insalubrità, in cui succedono cose terribili, regolamenti di conti e stupri», è l'ultima cosa che Carrère fa, procrastinando agli ultimi momenti del suo soggiorno l'impatto con la sofferenza. Prima, cerca di comprendere quanto profondo sia il malessere dei residenti francesi, ridotti alla disoccupazione e a un'inerzia rassegnata, con la loro fiorente attività turistica andata a rotoli e con la secolare industria del merletto completamente decaduta. Lo scrittore visita il teatro cittadino, siede nei caffè, passeggia lungo le banchine del porto, chiacchiera con giovani e vecchi, interroga intellettuali e commercianti, poliziotti e giornalisti, annusando passioni e ossessioni, animosità e slanci solidali. Sembra non esista nessuna soluzione per riportare Calais a una vita che abbia le sembianze della normalità: per lo meno, Carrère non sa proporre nulla. Si limita ad accusare il trattato di Le Touquet firmato da Francia e Inghilterra nel 2003 di aver provocato un disastro insanabile. Non basta più la comprensione generosa a calmare gli animi avvelenati da una parte e dall'altra: non basta scriverne, nemmeno se si è una celebrità letteraria.
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