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L’avarizia è un vizio generoso: può riguardare tanto un secolo quanto un’intera società, tutta un’epoca, come per esempio la nostra. Zamagni nel suo saggio prova a rivelarlo quando ci piace essere ipocriti: ai suoi esordi per avarizia si intendeva schiettamente la philargyria, l’amore per il denaro, adesso ci piace dire che l’avarizia è un difetto caratteriale, semmai, una questione per terapeuti, non per quei Paperon De Paperoni che vogliono diventare tutti, col la loro impoetica sindrome da Paperini perenni.
Su un libro di Zamagni studiai all’università Macroeconomia. E’ un professorone, uno di quelli che quando parla ascolti in silenzio e con gli occhi a terra. Nella collana Intersezioni del Mulino Zamagni pubblica un volume agile: Avarizia. Un’indagine su che cos’è la passione dell’avere. Il prof, fuori dai libri di testo, ha un atteggiamento umano, molto umano, con l’economia. E parlando di avarizia, dentro ci mette di tutto: dalla filosofia alla religione, da Sant’Agostino a San Francesco, dalla storia di Roma a Woody Allen. Una storia critica dell’avarizia (da virtù a peccato, da vizio capitale a impulso alla prosperità, se non addirittura “quasi virtù”) messa in relazione con le sue forme più antiche e moderne. Dalla taccagneria all'usura. E poi: perchè sono sempre gli anziani ad essere raffigurati come tirchi? E’ un’inchiesta umana, quella di Zamagni. Perché ha una domanda di fondo, un rovello, che l’autore dipana e infine risolve: può l’avaro essere felice? La risposta è: no. Perché l’avaro è posseduto dalle cose, scrive Zamagni, non possiede. Conserva ma non usa. Possiede ma non condivide. Ce lo insegnano Dickens e Verga. E la vera felicità sta nella condivisione. L’avaro è un fallito, perchè l'economia si fonda non sulla ricchezza, ma sulle relazioni, la capacità di scambio. Zamagni, carte alla mano, ce lo dimostra.
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