Della grande covata di scrittori che negli anni ottanta e novanta hanno fatto parlare di Torino come di un caso letterario, non è in fondo rimasto poi molto. Molti hanno ceduto alla distanza, altri si sono mimetizzati sotto coperte etichette, qualcuno ha fatto resistenza, qualcun altro ha fatto l'uovo nel nido del cuculo, e qualcun altro ha smesso di fare uova del tutto. Ma Longo è tra quelli che (senza mai proporsi a una ribalta anche troppo assiepata e fortunosa) ha saputo mantenere la sua dritta, ha scritto poco ma bene, non ha smaniato per "esserci" a ogni costo, ha saputo anche andare controcorrente, scrivendo un romanzo impegnativo e difficile come
L'uomo verticale, mentre in troppi tentavano di cavalcare l'onda del
mainstream. E ora se ne esce con un romanzo che ha tutti i tratti di un giallo-poliziesco non mancante di nulla, e quindi perfettamente rispettoso dei protocolli di genere, ma capace di distaccarsene poi per la qualità della scrittura, per il senso lancinante del paesaggio che s'incunea spiazzando (in questo, fatti i debiti distinguo di luogo, un po' "alla Biamonti"), per la cura dei particolari, dei dettagli (di cui mi pare un emblema quel "sucai", ossia una di quelle caramelle gommose di liquirizia e zucchero che il protagonista di tanto in tanto si mette in bocca, e che, nel loro minimalismo così ben ambientato, mi sembrano degnamente corrispondere alle orchidee di Nero Woolfe). Per non dire di uno dei temi che fanno qui da sestante: voglio dire il tema della bellezza, che non ha certo aspettato Sorrentino per affacciarsi tra le righe, visto che è già tanto presente nel libro di Longo immediatamente precedente, la
Ballata di un amore italiano, dove c'è tutto un mondo di gesti, di immagini, di sogni: un vero e proprio rituale di un tempo altro, di una stagione e di un mondo che solo la memoria può ritrovare nei più riposti e segreti angoli mentali. Il nuovo romanzo s'intitola
Il caso Bramard e racconta una storia da serial-killer. Ma racconta soprattutto la storia di Bramard, che prende un po' da quella di Leonardo nell'
Uomo verticale, il già noto professore e scrittore ridottosi a vivere nella modesta cascina posseduta dai suoi in un paese delle colline da vino in seguito a un increscioso e incolpevole episodio a sfondo sessuale che ne ha turbato la carriera. Bramard viene da quei personaggi che Longo ha saputo ritrarre fin dal suo esordio, e che ha nel
Mangiatore di pietre il suo maggior esito. Ma (ciò che più conta) viene da più sottili spinte personali, che ben riflettono una "visione del mondo" ruvida e guardinga, prudente e intraprendente, scattante e decisa. Personaggi che stanno lì catafratti, in attesa di un compimento che pare remoto e invece è a portata di mano. Almeno quanto parrebbe a portata di mano quella bellezza che vive di una sua ineludibile ambiguità, di una sua insidiosa e rovescia fascinazione. I personaggi di Longo sanno leggere, fanno mestieri intellettuali o gli stanno intorno, sanno, come Bramard, chi è Kawabata, ma sanno anche chi è Saba, che citano a memoria, o Primo Levi, che dissimulano traendone qualche frammento di pur amara verità (magari attraverso la tavola periodica di Mendeleev). E quasi più non sai cogliere quel tanto di artificio che pure c'è in loro, quel tanto di "maniera" (Longo "è didatta" alla Holden) che però non disturba e costringe anzi ad ammettere qua e là: che paragone azzeccato, che soluzione ardita, che immagine puntuale. Finendo infine per accogliere anche una parola come "occaso" che sembrerebbe oramai impossibile da scrivere ("A sera si fece due uova che mangiò con pane di segale della settimana prima, guardando il tramonto da dietro i vetri: un occaso modesto, equilibrato", dove la modestia e la misura equilibrano o stemperano ogni possibile effetto aulicistico). Corso Bramard ha un nome strano, che viene da una storia, fa tardivamente il professore, ma torna a fare per puntiglio ciò che ha fatto per professione (ossia il commissario di polizia) prima delle dimissioni dovute al suo carattere fuori serie. È solitario ma non solipsitico, è chiuso ma non autistico, è ispido, selvatico, ma imperdonabilmente umano. Patisce nella carne un trauma indelebile, e per questo arrampica aspre pareti rocciose per mettersi a rapporto e repentaglio, si misura con l'improbabile per vincere la sua bestia interiore, dice parole rade, taglienti come il rasoio di Occam e sa prendere decisioni rapide, agendo con slanciata prontezza. Non mi pare di dover dire di più, esimendomi dal riassumere una trama che merita di essere consegnata intatta al lettore. Personalmente auspico soltanto che Bramard non subisca duplicati e che non diventi il replicante di se stesso; che rimanga, insomma, un Paganini di valle, un unicum di pura razza nostrana, senza per altro nulla voler concedere, con questo, agli incantamenti localistici e agli elogi delle purezze impossibili. Tra montagne povere e colline del Roero, tra una Torino defilata e la mai nominata cittadina coi silos in cui si riconosce, nel caso di Longo, una speciale aria di casa, io credo che
Il caso Bramard (un bel romanzo davvero) possa bastare finalmente a se stesso. E niente più.
Giovanni Tesio