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In principio ci sono luoghi comuni, il primo dei quali è il convincimento, in sé erroneo, che il racconto dell'orrore vaccini dall'orrore medesimo. Poi c'è l'idea della testimonianza come catarsi in quanto atto di mutamento personale in un contesto pubblico, dove l'acclamazione sanziona l'autenticità di tale percorso (e il valore civile di chi l'ha effettuato). Terzo elemento è dato dall'idea che la vittima, che reclama comprensione, sia la figura per eccellenza alla quale attribuire amore attraverso un processo di identificazione che non può concedere eccezione alcuna poiché di sentimenti incondizionati si tratta. Quanto tutto ciò possa avere a che fare con l'agire storiografico, che si vorrebbe freddo e calcolato, ce lo raccontava già il Marc Bloch di La guerra e le false notizie, dove a questo approccio tardo-positivista contrapponeva il "calore" dell'inautenticità, laddove esso indica il soddisfacimento di un bisogno, quello di capire l'altrimenti incomprensibile e, soprattutto, di essere consolati. Frida Bertolini riflette sullo statuto della testimonianza e sulla sua traduzione in un corpus letterario che si è innervato nella coscienza delle società occidentali, attraverso l'analisi di tre opere, ad ampia diffusione, originariamente diffuse come veridiche e poi rivelatesi dei clamorosi falsi. I libri di Binjamin Wilkomirski, Misha Defonseca e Bernard Holstein, tutti e tre spacciatisi per sopravvissuti alla Shoah e poi smascherati nel loro ruolo di ladri di identità, ci inducono a una pluralità di riflessioni. La prima delle quali demanda al ruolo della memoria in una società dove "il grande silenzio delle cose si tramuta nel suo contrario attraverso i media. Il reale oramai straparla" poiché "i racconti di ciò che accade costituiscono la nostra ortodossia" (Michel De Certeau).
Claudio Vercelli
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