Questo libro è un'avventura nel significato profondo e multiforme della parola «cura», in un arco che attraversa quotidianità, pratica medica, mito, filosofia e Scrittura. ESTRATTO DALLA PRIMA PARTE Parole segrete di cura Hanna è una giovane operaia, con problemi di udito, che decide di partire e assistere Josef su una piattaforma petrolifera. Josef si è ustionato ed è ora cieco. Hanna lo accudisce con competenza. Josef deciderà di incontrarla, dopo la guarigione, per guardarla finalmente negli occhi. Chi è realmente Hanna? Che cosa ci faceva in fabbrica? Di quale patologia auricolare soffriva? Sembra che Hanna tragga piacere e giovamento dai lunghi discorsi e dalle impertinenti domande di Josef, che vuole sapere subito di lei, come è fatta, che cosa pensa, come è giunta a lui. L’alleanza che si stabilisce tra i due prende la forma di una cura reciproca: la cecità di lui addomestica il pudico riserbo di lei, che teme la violenza dello sguardo. La sordità le consente di rifugiarsi in uno spazio mentale, isolato e solitario come l’impianto di trivellazione costruito sulle acque. Ma questo rifugio è benefico anche per Josef, che avverte in quei delicati, ritrosi gesti assistenziali una risposta ai propri turbamenti, al trauma, a dilemmi mai risolti. Le parole si fanno strada a fatica nel cemento-acciaio sferzato dal vento e sfidano le forze di un mare incombente, ostinatamente ondoso, prima di prendere le forme di un’imprevista amicizia. Le parole hanno una vita segreta: puoi dimenticarle o fraintenderle, ma lasciano comunque un segno nella mente. Sono una bava dolce o irritante sul corpo. Con le parole bisogna fare i conti. È una donna, Isabel Coixet, a dirigere Sarah Polley e Tim Robbins nel film spagnolo La vida secreta de las palabras (La vita segreta delle parole, 2005). È una donna, Hanna, a sfidare il mondo maschile degli operai del petrolio. Ed è ancora una donna, Cura, la protagonista della favola annotata da Igino, il mitografo romano del II secolo dopo Cristo. Cura attraversa un fiume, vede del fango e comincia a dargli forma. Cura è pensierosa. Plasma la creta, prima di sapere con precisione che cosa sta portando all’essere. Mentre se lo domanda, Giove e Terra le si avvicinano. Cura chiede a Giove di donare il suo spirito di vita. Giove acconsente, ma vieta che Cura possa dare il proprio nome alla «cosa». Giove vorrebbe invece imporle il proprio. Ma anche Terra, che del resto aveva offerto parte del suo corpo, eleva analoghe pretese. Come mediare il conflitto? Scegliendo un terzo soggetto, Saturno, giudice equo, che sentenzia così. Dopo la morte, Giove ne prenderà l’anima e la Terra il corpo, ma Cura ha fatto questo essere per prima e quindi lo possiederà finchè esso vive. Altra decisione di Saturno: si chiamerà homo in quanto tratto dall’humus. Che cosa hanno a che fare tra loro il mito, il film e l’attitudine di accudire? Che rapporto esiste tra i gesti di cura e la verità dei personaggi, i loro nomi e destini? Scioglieremo uno alla volta i fili di questo gomitolo, che ci è ruzzolato tra i pensieri. Ma prima di farlo, accenniamo a un altro incontro memorabile. Nel Vangelo di Luca, al capitolo 10, versetto 25, un malizioso dottore della legge, tutto intento a giustificare se stesso, interroga Gesù su come acquistare la vita eterna e su chi sia il suo prossimo. Gesù non cade nella trappola delle definizioni teoriche e dei precetti a buon mercato. Racconta invece una storia assai istruttiva, quella del buon samaritano, e alla fine è lui a ribaltare la domanda: quale dei personaggi è stato il prossimo per il povero viandante percosso e derubato? Il colto interlocutore ha inteso e risponde: colui che ebbe compassione! L’esperimento mentale è riuscito. Gesù ha rimesso al giusto posto le categorie concettuali e le ha collocate nel contesto di una narrazione coinvolgente. Come a dire: prima ascolta o racconta una storia, poi capirai il significato dei nomi che usi e potrai pretendere una definizione vera. Il sapiente è pronto per ricevere il suggerimento decisivo: «Va’, e anche tu fa’ così» (v. 37). I dottori della legge sono a volte vittime del loro mestiere e idolatrano la legge, la legge – s’intende – dei dottori. Gesù spezza questa falsa devozione alla regola e mette in moto, grazie a un racconto, la ricerca della verità. Gesù mostra d’aver cura delle parole come ha cura dei deboli, dei violentati. I discepoli se ne ricorderanno, quando parleranno di lui, di lui come «la» Parola vivente. Dunque tra la parola e la cura si instaura una corrente di verità. Aver cura di un paziente, come Josef, significa lasciare che i gesti si trasformino in un dialogo, attraverso cui la verità di entrambi i partner venga alla luce. Anche il gesto di Cura, che plasma il fango, cerca il senso di ciò che sta facendo e il nome di quel manufatto: parole divine lo riveleranno. La parola prolunga la cura, la completa, ma fa anche dell’altro: la corregge, la orienta. Il dottore della legge, che ha cura della propria vita («che cosa devo fare per possedere la vita eterna?»), ora conosce la parola «prossimo» e sa quel che va fatto. Le vicende di Hanna, di Cura e di Gesù mostrano quanto conti aver cura di ciò che si dice: una presentazione (l’infermiera che si qualifica davanti all’ustionato Josef), una sentenza (quella emessa da Saturno), una definizione («essere prossimo a qualcuno») sono come una materia argillosa, che va lavorata nel corso di una relazione. Senza questa fatica, persino atti premurosi possono essere fraintesi e diventare inefficaci. Viceversa, senza il contatto tra corpi, senza il calore di una comunicazione, la parola rischia l’inutilità o persino la menzogna: Hanna è misteriosamente spinta al viaggio sulla piattaforma; Cura agisce, prima di e per sapere la verità; Gesù trattiene il suo interlocutore, gli offre ospitalità dentro un racconto (la parabola del samaritano) e solo alla fine gli pone la domanda decisiva. Se una verità accade, accade nel campo di forze teso tra cura e parole. La cura esige parole. E le parole cercano un racconto, che mostri il loro significato e le leghi lungo una trama accogliente. Quindi un’ipotesi può essere già ora espressa. Un sospetto utile al nostro lettore. Nell’incombenza del male, che può renderci sordi o ciechi, che ci deruba come fa un brigante, che fa vacillare i nostri rapporti e le nostre convinzioni, che ci strappa il dizionario con cui davamo nome alle cose, agli eventi, alla prossimità stessa degli amici, sentiamo che qualcosa, in noi e fuori di noi, si oppone alle avversità. Un racconto felice, di cui abbiamo avuto notizia, ci invita a narrare ancora la nostra vicenda, in cerca di un finale degno. Uno straniero, imprevedibilmente, lenisce le nostre ferite. Forse la passione che nutriamo per le cose è ricambiata? C’è qualcosa o qualcuno, nel mondo, interessato a noi? Mentre i pensieri inseguono una verosimile risposta e nuove emozioni ci invitano ad esplorare ancora, le nostre mani plasmano il fangoso destino, in cui ci siamo imbattuti. Ciò che è accaduto senza di noi o contro di noi, merita di venire riplasmato, di assumere un volto più umano. Cura sorregge questo impegno di giustizia. Cura è desiderare che la verità prenda forma. Medicina e cura La medicina cura? La medicina offre dispositivi di cura, ma si prende cura di chi soffre? Le frequenti lamentele di pazienti, associazioni di malati e degli stessi operatori sanitari segnalano, pure in contesti in cui è riconosciuto per legge il diritto all’assistenza sanitaria, una crisi etica dell’idea di medicina. Qual è la promessa che impegna un professionista sanitario? Promuovere la salute dei cittadini? Ma, da capo, che cosa significa oggi salute? Circola una nota definizione. Salute non sarebbe la semplice assenza di malattia o infermità, m
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