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Ma da dove salta fuori questo Gekoski?
Uno splendido isolamento? Una stanza tutta per sé? C’è un burbero vedovo, quasi settantenne, che ci prova. Non vuole più uscire dal suo guscio, dalla sua casa londinese, non intende stare a sentire nessuno, detesta tutti, ignora chiunque, anche la figlia Lucy, anche la colf bulgara, Bronja. Non risponde nemmeno al telefono, per otto mesi sta lontano dal mondo e arriva a prendersela perfino con un cane a cui lancia carne condita al… peperoncino. Di se stesso dice d’essere “un buon odiatore”. Lui è James Darke, ex insegnante di letteratura, col pallino di Dickens, di cui colleziona prime edizioni, ma con una crescente sfiducia sul “potere” dei libri, protagonista del romanzo Darke di Rick Gekoski, pubblicato da Bompiani e tradotto da Chiara Codecà.
La risposta al suo comportamento è in una perdita recente, quella della moglie Suzy, frutto di una scelta difficilissima, che ha preso per azzerare le sofferenze della consorte (personaggio niente affatto trascurabile, dotata di una fantastica ironia); la salvezza sarà in un bambino che lo costringerà a uscire dal buio che ha così abilmente evocato intorno a sé e ad abbandonarsi di nuovo, quasi suo malgrado, alla vita, alla luce. Verrebbe da chiedersi da dove salta fuori questa voce americana, questo debuttante tardivo che, bibliofilo e saggista, a più di settant’anni s’è scoperto narratore sopraffino. Gekoski – statunitense che vive in Inghilterra dagli anni Sessanta, già presidente della giuria del Man Booker Prize – scrive un romanzo che ha certamente echi letterari, a cominciare dalla figura del misantropo politicamente scorretto e livoroso (a tratti ricorda Barney Panofsky), ma senza snobismi e furberie, senza inutili ghirigori e senza strizzare l’occhio a chi legge.
Inquieto, cinico, spietato, Darke, che scrive un diario (in cui lancia invettive, fra gli altri, contro Eliot e Woolf), lascerà filtrare un po’ di luce da qualche spiraglio, la sua oscurità non sarà impenetrabile per sempre. Continuare a vivere nel mondo, ma senza farne più parte, espiando la sua colpa che è un segreto inconfessabile, è un progetto che viene però messo in crisi. Gekoski imbastisce la partitura del proprio romanzo con gran classe, fra citazioni, non del tutto esplicite, finendo per scrivere, fra pianti e risa e nonostante il caustico Darke, un’elegia della sofferenza.
Recensione di Micol Treves
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