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Anno edizione: 2015
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Libro divorato in un giorno, quando lo si chiude si rimane quasi svuotati al pensiero di quanti Salvatore sono oggi in carcere. Consiglio la lettura per chi vuole riflettere e aprire gli occhi di fronte a tanta realtà.
Libro molto interessante che analizza il rapporto che si è venuto ad instaurare tra un magistrato e un detenuto durante il suo processo. In questo modo offre molti spunti di riflessione sui concetti di detenzione, carcere, colpa, rieducazione e società.
Un libro intenso, a volte duro, che riapre il dibattito sullà necessità del carcere a vita
Recensioni
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Chi non conosce come si diventa giuristi in Italia può stupirsi di quanto poco essi conoscano del mondo carcerario. Spesso, ancora oggi, può accadere che lo studente di giurisprudenza in tutto il suo corso di studi non abbia occasione di varcare quella soglia oltre la quale vengono depositati i cosiddetti criminali. Anche quando si diventa operatori della giustizia la conoscenza di quel mondo è sovente superficiale, sfocata, non fondata sull’esperienza umana del contatto con custodi e custoditi, sulla percezione materiale del sinistro suono dei chiavistelli e di quell’indefinibile odore di cibo precotto che si sente camminando nei corridoi delle sezioni detentive.
Il libro di Elvio Fassone narra la progressiva scoperta di questo mondo da parte di un giudice coinvolto in un rapporto epistolare, durato più di venticinque anni, con un recluso che egli stesso ha condannato all’ergastolo. Conoscenza, quindi, maturata per mezzo del racconto, prima sgrammaticato poi via via più articolato e maturo, formato dalle lettere che gli giungono, con intervalli irregolari, da una persona che ha avuto modo di conoscere come imputato nel maxiprocesso di Torino ai clan della mafia catanese del biennio 1988-1989. Salvatore, l’ergastolano protagonista del libro, è incarnazione ed emblema di quella società dei cattivi, che perde ogni contatto con quella dei buoni cittadini e il percorso criminale assume i contorni di quello che i sociologi del crimine hanno chiamato “la profezia che si autoadempie”. Emblematiche in tale prospettiva due frasi che Salvatore rivolge a Fassone in tempi diversi. Ricordando la figura del fratello Carmelo, ucciso da un clan rivale: “A noi siamo maledetti, o la tomba o la galera. Che vuole che ci aspetti, a chi nasce nel Bronx di Catania?”. In un colloquio durante il processo, quando chiede al giudice se ha un figlio: “Perché le volevo dire che se suo figlio nasceva deve sono nato io, adesso era lui nella gabbia; e se io nascevo dove è nato suo figlio, magari ora facevo l’avvocato, ed ero pure bravo”. La maledizione sociale di essere nato in un certo quartiere, di aver frequentato certe compagnie, di aver intrapreso una carriera deviante sin dall’adolescenza e quindi essere entrato nel circuito penitenziario è il filo rosso che lega tutta la vicenda del protagonista. La vittima, dibattendosi per sfuggire alla ragnatela che lo avvolge, non fa che avvilupparsi ancor di più nelle spire di un destino dal tragico epilogo.
Recensione di Claudio Sarzotti
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