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Anno edizione: 2014
Anno edizione: 1994
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«Appena presi a leggere il romanzo pensai subito: È intraducibile!... ma il libro cercava di coinvolgermi... mi tirava per il lembo della giacca, mi chiedeva di non abbandonarlo alla sua sorte, e nello stesso tempo mi lanciava una sfida» – Italo Calvino
«Il venticinque settembre milleduecentosessantaquattro, sul far del giorno, il Duca d'Auge salí in cima al torrione del suo castello per considerare un momentino la situazione storica. La trovò poco chiara. Resti del passato alla rinfusa si trascinavano ancora qua e là. Sulle rive del vicino rivo erano accampati un Unno o due; poco distante un Gallo, forse Edueno, immergeva audacemente i piedi nella fresca corrente. Si disegnavano all'orizzonte le sagome sfatte di qualche diritto Romano, gran Saraceno, vecchio Franco, ignoto Vandalo. I Normanni bevevan calvadòs...»
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Se un mio prof dell'università non ci avesse consigliato di leggere " I fiori blu" di Queneau, penso che a me non sarebbe mai sorta come idea; soprattutto quando ho letto che anche a Calvino, che l'ha tradotto, inizialmente sembrava un libro incomprensibile (eppure non ha mollato). Che dire, mi è piaciuto tantissimo, per non parlare della figura del duca d'Auge, divertente e singolare che si intreccia con quella del pigro Cidrolin. È un romanzo in cui si intrecciano sogno, psicoanalisi, storia e molte invenzioni linguistiche; Queneau tratta temi importanti come quello della giustizia, del potere della Chiesa, della politica della Francia e lo fa in modo surreale e con una vena d'ironia. Non voglio svelarvi altro perchè vi consiglio di leggerlo e scoprire come andrà a finire la storia
Un sogno, non si sa di chi, che si sviluppa per un lungo arco di tempo e in cui si susseguono personaggi bizzarri e cavalli che parlano. Attraverso una trama leggera, spassosa, eterea, ma con implicazioni linguistiche elaborate, ci vengono illustrati concetti importanti, forti, talvolta crudeli, come solo il linguaggio onirico riesce a fare.
Lo specchio nel quale due uomini si sognano a secoli di distanza, presenti e lontanissimi entrambi dentro un tempo immanente e insieme abolito, quasi insensato. Le inquietudini dell'agire e le malinconie del poltrire nei due movimenti che scandiscono la trama attraverso le figure del Duca d'Auge e di Cidrolin, nervoso in ogni nuova avventura il primo, passivo nelle sue interminabili sieste il secondo. Ma è la stessa anima a fluire e a oscillare da una mente all'altra, l'ospite fisso che si affaccia e si rinnova, l'uguale e il cambiato, in un salto fra le epoche che sta lì a fissare il nessun tempo, un altrove identico e diverso, un destino scisso che nei rispettivi sogni trova il suo intero per poi ancora smarrirsi nelle vicissitudini della propria eccentricità. Non facile entrare in questo labirinto con strumenti di sola ragione, forse inutile. E' un'opera di tale bellezza, un tale incastro di geniale meraviglia che stare lì a perdersi fra mille spunti d'analisi rovinerebbe ogni grandezza e ogni abbandono. Scrive Queneau: "Ci sono sogni che si snodano come incidenti senza importanza, cose che nella vita ad occhi aperti neppure se ne riterrebbe il ricordo, eppure ti occupano al mattino quando li afferri mentre si spingono in disordine contro la porta delle palpebre". E' proprio così che si muove il romanzo, come una giostra che nel suo giro divora ogni spiegazione, la macina in vortici di suoni e novità mirabili e tuttavia finisce per ripetersi e tornare nelle abitudini delle due unità in gioco. Un rintocco gemello dove - ancora una volta - la lingua è regina coi suoi azzardi grandiosi: "Il Diavolo fa le pentole ma non i Copernichi". O ancora: "il duca cavalcava silentario e solizioso". Scontro di classe? Ma no! Il nobile e l'imbianchino sono la stessa persona. Dunque, appena un ini-quo qui pro quo. Mentre il finale da solo vale "una pinta di liquido lacrimale", continuo a sentirmi come un "disutilaccio" a imbrattare parole deficitarie davanti a cotanto capolavoro.
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