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Ricostruzione un po' romanzata di una storica intervista. Tutti gli attori sono superbi, il regista è una certezza.
Un film condotto con una regia solida e navigata, attori perfetti, sembra di vivere quel momento in prima persona. La figura di Nixon è dapprima arrogante e fastidiosa, poi, nel finale, patetica e tormentata. Sono due ore di cinema gradevole e istruttivo. Lo consiglio vivamente.
La missione Apollo 13 fu “un fallimento di successo” e la NASA si trovò coi fondi tagliati. Dal 1995 Ron Howard approfondisce l’esame di quale sia il prezzo dell’ammettere una sconfitta. Chi s’azzarda nell’autocritica, cioè in quel che dovrebbe costituire l'esempio più elevato della cultura ominide, finisce come il Nixon mostratoci da questo capolavoro dell’ex “Happy Days”: viene ridicolizzato pubblicamente, secondo una modalità paleoantropologica che premia solo il più forte in machismo, appeal e celodurismo, tipo il suo rivale Kennedy playboy e fotogenico, modello d'invidia per i maschi, oggetto del desiderio per le donne. Il Nixon finzionale della pellicola avrebbe meritato una presidenza a vita, invece è passato alla storia col suffisso “-gate” applicato a ogni nuovo scandalo statunitense. Il "family boy" Cunningham si sta prendendo una solenne rivincita personale grazie a una filmografia tutta focalizzata verso i giochi omicidi alla Nash, il matriarcato alla Dan Brown e adesso il governo democratico imperniato ancora su princìpi etologici o entomologici. La severa autoanalisi e la denuncia della propria fragilità restano sempre e comunque roba da perdenti, fallaci e falliti, “loser” vergognosi e irrecuperabili al confronto di santi ed eroi senza macchia, invitti e invincibili. Il darwinismo sociale, o forse meglio dire sociobiologico su base genetica, persiste nell’annientare una selezione del migliore fondata sulla saggezza consapevole ed esplicita della nostra fin qui irrimediabile incapacità di non sbagliare.
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