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Un altro mondo, parallelo e invisibile, che pochi conoscono e ancora meno frequentano, quello delle periferie. I nomadi, o Rom, o Sinti, o più sbrigativamente e spregevolmente zingari, abitano nelle baracche, in un "angolo di città dove nessuno va. Quest'angolo di città sta dentro a un altro pezzo di città, dove Gago, Betta, Geliana, Giasmina, Seriana, Milan Milosc, e persino Jela, ci abitano. A parte topi giganti, cani, colombi, galli, pecore e qualche maiale per quand'è festa". L'autore, che ha conosciuto le persone che racconta facendo l'operatore sociale nel campo nomadi di Scampia, ci presenta la comunità dei Rom con grande abilità. Gago ha sei anni e "tutto il giorno se ne va in giro a fare scherzi, spaventi e doni ai vivi e ai morti", non sa scrivere ma disegna molto bene, tanto che agli occhi di tutti è posseduto dallo spirito di un grande artista, i suoi disegni, poi, hanno una particolarità: sono capovolti, forse perché è così che appare ai suoi occhi il mondo che lo circonda. Un giorno Gago muore per una disfunzione cardiaca, e il racconto del funerale e dei morti che tornano a bere e a mangiare è un grande affresco della cultura di un popolo ostinatamente legato alle proprie tradizioni e proprio per questo difficilmente adattabile. Alla cerimonia intervengono anche i "gagi", tutti quelli che vengono "dall'altro pezzo di città, quello dove ognuno va". Alcuni sembrano strani, "non hanno giacca e cravatta", altri sono figure note della malavita locale, come il signor Pifferino che si frega le mani perché è ricco e diventerà ancora più ricco trasportando il morto lì dove è nato, in Jugoslavia. Il testo, a metà tra prosa e versi, è incisivo e realistico, ma anche poetico e ben supportato dalle illustrazioni che si muovono sullo stesso registro. La città degradata fa da cornice a volti espressivi e occhi penetranti con l'accoglienza dei colori caldi e di uno stile un po' malinconico. Velia Imparato
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