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Struggente ritratto di una Russia in un momento di trapasso fondamentale per gettare le basi di una nuova ipotetica società moderna; ma in questa opera teatrale c’è tutto: sentimento, passione, intelligenza, umanità, avarizia. Lettore incallito di Dostoevskij e Tolstoj, ci ho messo un po’ ad approcciare questo autore, ma alla fine ce l’ho fatta. E ne è valsa la pena
Rituffarsi in Anton Cechov immerso nella storia teatrale. Un grande come sempre.
Non arrendersi alla forza del reale, differirlo resistendo con viziata immaturita' agli assalti di un'epoca cambiata, bersi gli ultimi rubli in feste dal suono ormai patetico, mentre fuori la civilta' incalza con le sue svolte e strappa i ciuffi residui alle stinte parrucche titolate. Un'aristocrazia terriera agli sgoccioli che ancora si benda, si recinta nelle sue forme, sente si' le urgenze di un debito bussare nella coscienza, ma non sa e non riesce a tener testa a nulla. Sara' la fine. La proprieta' sara' messa all'asta, un'intera sinfonia di ricordi svanira', e quel giardino di eterna e sospesa meraviglia fara' il posto a villette piu' pratiche, a una nuova fisionomia piu' in linea col progresso. Un coro di personaggi rimasti indietro (tranne - paradosso curioso - l'eterno studente) che ancora si aggrappano al llro nome, a un lignaggio polveroso, incapaci di leggere dentro quel mondo che inverte la sua rotta. Cechov sentiva e vedeva nitidamente il '17 nella sua mente, lo annuncia in questo testo con lucidita' infallibile, lo scava, lo smuove e lo sviscera con passaggi maiuscoli, mettendo a nudo le inutili stantie difese di un ceto illustre e gli enormi ruggiti delle classi umili che finalmente trovano riconoscimento. Definirlo un capolavoro premonitore e' appena il minimo. E' un lento massacro identitario che cede il testimone alle spinte di un realismo che e' anche conquista. Le parole di Firs, il domestico che ancora esalta gli sfarzi perduti, saranno il sigillo finale di una nostalgia ormai al crepuscolo.
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