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Potrebbe non valere in ogni caso il principio secondo cui le migliori opere d’arte sono quelle di cui è più difficile parlare, che non assomigliano a nulla che ci fosse prima, per cui mancano termini di confronto. Di fatto, si adatta molto bene a diversi libri di Coetzee, oggetti non identificati che spiccano nel paesaggio letterario contemporaneo come monoliti affascinanti ed enigmatici, e senza dubbio anche a quest’ultimo, splendido, I giorni di scuola di Gesù, pubblicato da Einaudi nella bella traduzione di Maria Baiocchi. Il romanzo va letto come seguito de L’infanzia di Gesù (del 2013) e potrebbe continuare in ulteriori sequel, a comporre un’opera ancora più grande e importante (ma non trovo dichiarazioni dell’autore al riguardo). Quel che è certo è che in questi due libri la notoriamente asciutta e laconica lingua dello scrittore sudafricano raggiunge un culmine, ed è forse un fatto legato alla sua età (76 anni) se tutto, sintassi, lessico, scene, simboli, sembrano pesati e misurati col rigore di una quasi ascetica essenzialità. La storia è ambientata in un mondo utopico (o forse distopico, difficile decidere: potrebbe essere un aldilà, un universo parallelo, la vita dopo la reincarnazione) accuratamente ripulito di ogni riferimento storico e geografico. Sappiamo solo che vi si parla spagnolo, che è retto da un sistema di governo burocratico ispirato a ideali socialisti, e che vi si giunge da un altrove non meglio precisato, per ragioni sconosciute agli stessi immigrati: le persone che sbarcano a Novilla (è il nome della capitale) hanno infatti subìto, nel corso del viaggio, una sorta di spoliazione autobiografica, non ricordano nulla di ciò che erano, ricevono un nome d’ufficio e una serie di beni e servizi offerti dallo stato (casa, occupazione, alimentazione di base). Simon è il personaggio principale, un quarantenne che nel viaggio verso Novilla ha scelto di prendersi cura di David, ragazzino di sei anni senza genitori, dal temperamento ribelle e un’intelligenza fuori dal comune. I due romanzi raccontano i primi anni di vita di una strana famiglia putativa (ai due si aggiunge una «madre» chiamata Inès e il cane Bolivar), la fuga dalla capitale perché David non accetta la scuola, il trasferimento in una lontana provincia del Nord, un’accademia di danza dove il bimbo s’iscrive e impara a «ballare i numeri» e a conoscere le stelle, un fatto di sangue con protagonista un personaggio che fin dal nome (Dimitri) appare molto dostoevskiano (dal fondo dell’opaca e impenetrabile tessitura di Coetzee affiora qualche nobile riferimento, come il Don Chisciotte tanto amato da David) e altri episodi minori, tra cui numerosi dialoghi, a comporre un ipotetico Vangelo, straniante e filosofico, dove i collegamenti tra il padre del cristianesimo e il ragazzino in questione, se esistono, sono continuamente rinviati a piani di lettura eventuali e assai poco evidenti. Tutto è leggermente sghembo, immerso in un’atmosfera inedita di pensiero e scrittura, puntellata di elementi indefinibili, eppure tutto è vero e penetrante. Coetzee intende usare la letteratura per porre interrogativi fondamentali sul nostro stare al mondo, sulla vita e la morte, sul conflitto tra ragione e passione, ordine e anarchia, e riesce a farlo -nel suo universo minimalista, allegorico, scisso- con un’intensità e un’economia di mezzi che ricordano il procedere delle fiabe e come le fiabe aprono a infinite interpretazioni. Poca soddisfazione, dunque, per chi nella scrittura cerca l’epica del quotidiano e la celebrazione dell’immediato. Per gli altri: uno dei libri più belli di uno scrittore distante e straordinario.
Recensione di Mazza Galanti
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