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Conosco Nicolò Migheli da quando, nei primi anni cinquanta, frequentavamo l’asilo di Santulussurgiu e mai avrei immaginato di non trovare, quasi, le parole per descrivere la gioia e la trepidazione che ho provato nel leggere il suo nuovo romanzo “La grammatica di Febrés”. Per questo, dopo aver letto, anzi, divorato, il libro, per alcuni giorni ho lasciato lievitare il lievito madre della scrittura e ora mi accingo a infornare il pane dei miei pensieri nel forno ardente che è in questi giorni la nostra terra. Dire che La grammatica di Febrés è la storia di un gesuita catalano, missionario e linguista, autore di una grammatica della lingua dei Mapuche e di una grammatica del sardo, che affronta una vita avventurosa che lo porta dal Cile nel Regno di Sardegna, è riduttivo. In realtà, le vere protagoniste del libro sono la lingua mapuche e la lingua sarda, e infine tutte le lingue. Mentre leggevo, mi sembrava di vedere dall’alto, a volo d’aquila, le avventure e peripezie di quest’uomo di chiesa che lotta con fervore inaudito per la libertà e la dignità dei suoi fratelli, da altri chiamati “selvaggi”, ma da lui invece compresi e amati. L’autore mi fa immaginare come doveva essere la vita in quei luoghi lontani e fa rivivere difficoltà e incertezze di allora, facendocele sentire così vicine a noi e ai nostri tempi. L’onestà intellettuale di Andres Febrés/ Bonifacio d’Olmi, personaggi di finzione, è legata intimamente a quella di Nicolò Migheli, che nella Cagliari del tardo 1700 pone la nascita alle idee che sono alla base della nostra contemporaneità. La grammatica di Febrés inoltre mi ha rivelato quanto ancora dobbiamo lavorare su noi stessi per riappropriarci della nostra lingua, della nostra identità e della nostra libertà. La grammatica di Febrés ci ricorda chi siamo. La grammatica di Febrés mi ricorda chi sono. Diego Manca
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