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Mi ha incuriosito per il titolo, perché non sapevo che significato avesse la parola balipedio, ma è bastata una breve ricerca sul dizionario per sapere che con questo termine si indica un campo sperimentale per il tiro dei cannoni e comunque per altre esercitazioni a fuoco; inoltre, in occasione della ricorrenza (centenario) della nostra partecipazione alla Grande Guerra il romanzo era indicato da alcuni quotidiani fra quelli in tema meritevoli di lettura. Ciò premesso, mi corre l’obbligo di evidenziare da subito che Il grande balipedio, sebbene ambientato nel corso della prima guerra mondiale, è un po’ atipico e pur nella vicenda di una missione suicida non cerca di esprimere tanto una ferma condanna della guerra, che nemmeno viene esaltata però, ma tende a far apparire il conflitto come uno scontro di classe, secondo una radicata concezione marxista. La figura di questo tenente, di un ceto borghese alto, a cui la vita non ha riservato preoccupazioni e che lui conduce con indifferenza, quasi con apatia, e l’immagine dei soldati che comanda, proletari considerati in guerra come carne da cannone e in pace come carne da sfruttare, segnano un netto contrasto che, pur tuttavia, il fango delle trincee, il martellante tambureggiare dei cannoni, il vitto insapore e inadeguato finiscono per annullare, nella lordura di un mondo che nelle traversie di una guerra rappresenta la peggiore condizione possibile. Il tema non è facile e la politicizzazione di un fatto può risultare controproducente alle esigenze di una interessata e gradevole lettura. Purtroppo l’autore non è riuscito a dare al romanzo una struttura snella, appesantendolo con frequenti riflessioni del protagonista principale, a volte anche superflue, in quanto ripetitive di concetti esposti in precedenza. E non è un caso se le parti migliori sono quelle in cui emerge un contrasto, anche fisico, con i superiori, senza che ci sia necessità di esporre un pensiero sul fatto che il mondo è schematizzato in classi e che ogni classe, in particolari momenti, può imperare sull’altra. Un colonnello che sembra ricordare tanto il generale Leone di Un anno sull’altipiano, e un capitano, pazzo di paura, che crede di riscattarsi rubando le corazze della pattuglia addetta al taglio dei reticolati sono l’emblema dell’ottusità di chi, in un dato momento della storia, è investito di poteri non supportati da idonee capacità. Così se sono frequenti pagine di una particolare grevità, che mi hanno anche stizzito, sono tuttavia presenti altre che stimolano a proseguire nella lettura. Nel complesso, direi che il libro è meritevole, ma senza alcuna enfasi, senza l’emozione di chi è convinto di aver avuto un consistente contributo al suo livello culturale; ci sono, come sopra precisato, meriti e demeriti, però c’è anche una rappresentazione della guerra un po’ diversa dalle solite ed è questa originalità il pregio maggiore.
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