Ho appena finito di leggere questo libro, Ho creduto nei khmer rossi e queste sono parole a caldo. Se non ve ne frega nulla della Cambogia e dei khmer rossi, se non ve ne frega nulla di deportazioni, sofferenze inaudite, privazioni, ammazzamenti, torture, genocidi, illusioni e utopie, ebbene, lasciate perdere e non leggete tutte le stronzate che scriverò. Se non vi interessano le sofferenze e le urla di un popolo oppresso, la giustizia, la memoria, la disillusione, gli orrori di una rivoluzione e gli errori della storia, la pesantissima complicità di tutti quelli che non hanno voluto vedere, chiudete la pagina o digitate un altro sito nella barra degli indirizzi del vostro browser. Ho creduto nei khmer rossi è un libro bellissimo, tanto bello quanto doloroso: è una lettura difficile, piena di sospiri e pensieri. Ho creduto nei khmer rossi è la storia di uno studente cambogiano che, dopo la presa del potere a Phnom Penh da parte dei khmer rossi nell’aprile del 1975, ritorna nel proprio Paese natale attratto dall’entusiasmo per la rivoluzione e dal desiderio di contribuire alla ricostruzione della pace e della prosperità. Un entusiasmo che diventerà un incubo: insieme alla moglie verrano immediatamente internati dei campi di rieducazione, spostati tra diversi luoghi di detenzione e lavoro, affamati e oppressi. Lunghissimi anni in cui daranno alla luce anche la loro prima figlia. Ong Thong Hœung è un intellettuale cambogiano che ha creduto nei khmer rossi. Ventenne, nel 1965, lascia la Cambogia per andare a studiare economia politica a Parigi. Cinque anni dopo, nel 1970, dopo il colpo di stato filoameicano del generale Lon Nol che porterà la Cambogia nella guerra di Indocina, aderisce prima all’Union des étudiantes khmers e successivamente al Fronte Nazionale Unito della Kampuchea, dal musicale acronimo FUNK. Il FUNK era un luogo di incontro dove tutti i giovani intellettuali cambogiani venuti a studiare a Parigi avevano trovato il bagno ideale in cui immergersi per l’impegno diretto e miiltante verso il colonialismo francese prima, e verso l’imperialismo americano, poi; un’accademia – come dice Renzo Foa – dove si formava l’esplosiva miscela costitutita da nazionalismo, comunismo, giacobismo ed egualitarismo contadino che avrebbe dato i suoi connotati alla rivoluzione dei khmer rossi. Il 17 aprile 1975 cade il regime filoamericano di Lon Nol e i khmer rossi prendono il potere a Phnom Penh: Ong Thong Hœung decide allora di tornare in Cambogia per partecipare alla rivoluzione e alla ricostruzione del Paese. Sebbene fosse a conoscenza delle storie circa la deportazione di tutti gli abitanti della capitale, dei massacri perpetuati dagli stessi khmer rossi, delle testimonianze circa le torture, e delle masse di lavoratori oppressi colpite dall’inedia, decide comunque di ritornare in patria, inseguendo il sogno dell’utopia comunista, pervarso della ferma convinzione che solo la rivoluzione avrebbe portato la pace e la giustizia in Cambogia. Nel 1976 si imbarca a Parigi su un aereo diretto a Pechino, visto che non esistevano più i voli diretti, e da lì fino a Phnom Penh. Atterrato in terra cambogiana, insieme alla moglie, viene subito internato e comincia la sua rieducazione: fame, miseria, lavori forzati, sofferenze atroci, persone sparite o scomparse, famiglie divise e poi decimate. È dentro l’orrore della Cambogia dell’Angkar, il mattatoio perseguito da una rivoluzione che voleva rendere tutti uguali uccidento tutti i diversi. Il libro, scritta in prima persona, è una cronaca degli anni nei campi di rieducazione, il duro lavoro, il cibo insufficiente, il cambiamento degli amici in nemici, la propaganda del regime, l’uccisione dell’individualità verso il perseguimento di un egualitarismo. Soltanto il giorno prima di atterrare a Phnom Pehn, ancora ebbro della contaminazione parigina, i pensieri e le parole di Ong Thong Hœung sono piene di illusione: “… So cosa raccontano i rifugiati. La vita là è un inferno. Alcuni affermano che sono stati compiuti dei massacri. Ma mi rifiuto di credere che i khmer uccidano altri khmer… …La gente esagera sempre, soprattutto i rifugiati, che hanno bisogno di trovare ragioni valide per giustificare l’abbandono della patria. I dirigenti del Paese non sono dei selvaggi… Sono persone oneste, coraggiose e patriottiche, che hanno studiato e consacrato la vita al loro Paese…“ Dopo l’orrore iniziale e l’accettazione forzata, obbligata, della nuova vita nei campi di rieducazione, Ong Thong Hœung comincia a prendere coscienza dell’orrore in cui si trova e all’interno della sua mente cominciano ad aprirsi due voci: “… È un dolore atroce. Tutto il mio essere è diviso: restare me stesso e osare oppormi alle menzogne e alle barbarie, o, per salvarmi la pelle, tradire le mie convinzioni più intime e seguire questa rivoluzione…“ Ma la realtà e atroce e spietata: “… Raccogliere merda, demolire una chiesa, zappare la terra, distruggere case: abbiamo lavorato con le nostre mani lottando contro quello che pensavano le nostre teste. Facciamo ciò che ci chiede l’Angkar, come bestie da soma. Eccoci trasformati in animali…“ La fame e il cibo insufficente piegano le persone, raccogliere da terra una noce di cocco che cresce libera in un campo di detenzione è un’offesa all’Angkar: non è concepibile pensare alla propria individualità, ed è un gesto che si paga con la morte e la tortura. I compagni dei campi sono esortati a denunciate qualsiasi elemento debole. “… L’io è bandito. Fa parte della disciplina per lottare contro l’individualismo…“ La vita è un inferno, la cancellazione dell’individualità e dei diritti fondamentali è totale e schiacciante. Persone trasformate in bestie, oppressi e malnutriti. “…Per il momento, poter mangiare e non dover vedere il filo spinato sono sufficienti a rendermi felice, la fame di cibo e la fame di libertà sono sorelle…“ Nell’orrore del lavoro quotidiano, delle riunioni serali di critica/autocritica gli uomini soccombono a un regime che non lascia posto ai diversi, dove due milioni e mezzo di persone su un totale di sette milioni sono state massacrate, dove ogni uomo è un potenziale traditore o un cieco omicida. Famiglie intere sono state decimate, gli uomini in maggior proporzione: “… Vedrai, solo le donne e i bambini sono ancora vivi. Non si vedono praticamente più uomini. Si direbbe che è il regno delle donne…“ Il racconto è come un cammino in un sentiero pieno di sangue e uccisioni di massa, dolore e sofferenza, ma è anche un percorso di disillusione verso l’utopia di un regime spietato: “… Una volta, pensando all’esistenza che conducevano mio zio e le persone come lui, i suoi amici, i vicini, mi dicevo che era tempo di fare qualcosa per migliorare il loro futuro. Ed ecco che oggi questa domanda risveglia in me ferite terribili, rimpianti e una profonda collera contro una speranza che oggi è soltanto un brutto ricordo…“ Ho creduto nei khmer rossi è un bellissimo libro, un’esortazione a capire, un documento dal grande valore storico, un atto di accusa. Leggetevelo. rascarlo.wordpress.com
LIBRO
Ho creduto nei Khmer rossi. Ripensamento di un'illusione
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Nell'aprile del 1975 i Khmer rossi presero il potere a Phnom Penh. Per Ong Thong Hoeueng, studente cambogiano emigrato in Francia, si trattò di una svolta attesa a lungo, nella convinzione che il cambiamento politico avrebbe aperto un'era di pace e prosperità in una nazione a lungo sotto il dominio coloniale. Il ritorno in patria e la speranza di trovare un paese liberato, si trasformarono presto in un incubo. Imprigionato per quattro anni con la moglie in un campo di lavoro, Houeng restituisce in questo volume una testimonianza di quello che realmente fu la dittatura dei Khmer rossi in Cambogia. Con una presentazione di Renzo Foa.
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Autore:
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Traduttore:
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Editore:
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Anno edizione:2008
In commercio dal:
24 gennaio 2008
Pagine:
235 p., Brossura
EAN:
9788883355059
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CARLO DI NUCCIO 06 dicembre 2009