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Nel 1895 Cechov pubblica il diario del suo viaggio, dall’aprile al dicembre del 1890, a Sachalin: Dalla Siberia all’isola Sachalin, questo il titolo. La grande isola artica, a Nord del Giappone, poco distante dal continente, controverso territorio assegnato alla Russia con i trattati del 1875, diventa una colonia penale nel 1869. Le pubbliche narrazioni di finalità – farne una colonia “agricola di correzione” – subito confliggono con la morfologia del luogo, la sua impraticabilità, il clima – “il luogo più piovoso di tutta la Russia”, “per 181 giorni l’anno è sottozero” – la sua improduttività e la banale quotidiana violenza. Il trentenne Cechov – nel suo bagaglio pistola e macchina fotografica – inizia a scrivere nel pieno della traversata siberiana. [...] La scrittura è brillante, la narrazione fitta di occasioni, di avvenimenti. Minimalista, certo, la pagina, ma nel freddo e nella neve sono vividi e quotidiani oggetti, animali, fisionomie, il suono delle catene della colonna di detenuti in movimento, animosi e avventurosi gli incontri lungo la trafficata pista transiberiana [...]. Cechov riesce, una volta a Sachalin a visitare izbe e nuclei urbani, flora e fauna, consistenti rappresentanze della popolazione autoctona e sottoposti alla pena nei vari stadi: detenuti – in catene e senza catene –, coloni, proprietari di terre assegnate, contadini e in né uomini liberi. Rari i percorsi a esito felice: su cinque detenuti tre hanno tentato di evadere, due direttori, Selivanov e Derbin, particolarmente crudeli, sono stati uccisi dai detenuti. Impiccagioni, frusta e bastone dominano la scena. Omicidi continui – di detenuti, guardie, di giljaki e ainu i miti nativi – sconvolgenti per “insensatezza e crudeltà”, cimici e parassiti ovunque, gioco d’azzardo del faraone che segna e cancella il tempo dell’inedia e della nostalgia, corruzione e prostituzione delle donne libere e detenute, di mogli e glie, la sifilide o “mal giapponese”. Tuttavia non è questo un libro sulla katorga, un capitolo di letteratura carceraria comparabile – come si è fatto – alle Memorie del sottosuolo o ai Racconti di Kolyma o a Una voce dal coro. Sono piuttosto le pagine di una corposa inchiesta sociosanitaria – medico Cechov lo è –, capitoli di un antropologo, di un appassionato di ora e fauna ed esperto di pesca. Una distanza c’è sempre, anche dove, come negli ultimi capitoli, si libera la narrazione più pertinente al concentrazionario.
Recensione di Piero Del Giudice.
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