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Nel primo e nel terzo dei tre saggi che compongono questo volume di George Steiner, l'illustre critico (Parigi, 1929) esibisce una sua appassionata, vibrante, devota, apologia del libro, "oggetto" culturale e di culto a cui ha dedicato tutta la vita, da quando, a sei anni, suo padre iniziò a leggergli Omero, Shakespeare, Heine. E del libro indaga con arguta intelligenza teoremi e corollari, introducendo il lettore alle sottili distinzioni tra testo e percezione del testo, al mistero dell'incontro con la lettura (talvolta casuale) che può cambiare la vita, alla "neurochimica" dell'atto creativo: e poi al ruolo collaborativo del lettore, alla ottusa perfidia del potere che si esprime nella censura, alla vitalità eterna dei personaggi romanzeschi capaci di sopravvivere ai loro creatori, al destino futuro dell'editoria davanti all'implacabile avanzare di nuove tecniche informatiche, al declino inevitabile della lettura tradizionale, basata su memoria, concentrazione, silenzio, competenza letteraria. Se questi due saggi sono espressi in uno stile accattivante e con temi totalmente condivisibili, è invece il secondo testo del volume ad offrire al lettore spunti di riflessione più originali e polemici, capaci di suscitare permalosità e discussione. Con il titolo di "Il popolo del libro", Steiner esamina da ebreo il rapporto del popolo ebraico con la scrittura, che per due millenni si è totalmente identificata con Le Scritture, mettendone in luce la pericolosa ossessione per l'esegesi, che ha immobilizzato la cultura ebraica in una sostanziale aridità letteraria e filosofica per molti secoli. Ma proprio in questa sua intransigente fedeltà alla "lettera" Steiner individua la particolare passione del popolo ebraico, capace di garantirne la millenaria sopravvivenza a dispetto di ogni persecuzione.
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