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Anno edizione: 1994
Anno edizione: 2014
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La nascosta poesia che dimora nelle pagine della legge, la soffocante e invitante storia del paradosso umano a cui tenere testa con un fragile scettro di norme, il senso del giusto e di un'etica sempre febbricitante sopra le fredde tavole del dover giudicare. Di questo e tanto altro parla questo libretto. L'episodio che lo apre è un fatto di sangue nella Parigi del 1792, l'irruzione dei sanculotti nella sala delle udienze mentre lì si giudica la guardia svizzera del re e il capo della stessa, tale Bachmann. La grande bravura di Satta immediatamente mette a confronto due realtà, la Rivoluzione e il Processo, un'antitesi, perché "il processo è essenzialmente e per definizione un atto antirivoluzionario, è un momento eterno dello spirito, e chi fa la rivoluzione non può volerlo senza in qualche modo negare se stesso". Proprio sulla soglia della sala la folla berciante viene bloccata dal presidente officiante il rito e intimata a fermarsi. Ecco il dilemma: che bisogno c'è di un processo se è in atto la Rivoluzione, dunque, più latamente: che cos'è il processo? Può avere vita propria, essere slegato davvero da un contesto che lo agita e lo anima? Il giudice quanto deve scindere da se stesso l'uomo dal suo stesso ruolo? La riflessione si distende poi su dati molto sensibili di pura tecnica giuridica; momenti specifici in alcune singole procedure e insieme corredi di alta letteratura giuridica, pensiamo solo a due nomi come Chiovenda o Gaetano Mosca. Ma l'abbraccio più significativo è anche e soprattutto quello alle dinamiche sociali che genera un processo, le ricadute nell'opinione. E sempre il giudice come primo e ultimo faro della vicenda. Scrive Satta: "Egli deve vedere con gli occhi di un altro". Stupenda frattura, doloroso ruolo. Ma è questa la grandezza del processo, forma e inquietudine, male e fatti attraversati con strumenti di scienza. E la vita? Entra? E come? Proprio questo è il mistero del processo.
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