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Non mi permetto di valutare la qualità della traduzione, rimando ad Umberto Eco con il suo "Esperienze di treduzione". Vorrei solo segnalare come diventa fondamentale il recente "La lingua geniale. 9 ragioni per amare il greco" di Andrea Marcolongo. Cosa significa?, che in greco la sigma ha due grafie diverse se all'interno della parola od in finale; e proprio in prima pagina, titolata Etimologia, lo svarione, non saprei a chi sia dovuto, è eclatante. Ma d'altronde tale Etimologia viene dichiarato essere stata "fornita da un supplente di scuola elementare morto di consunzione". Evidentemente non aveva studiato greco, ma allora eviti di cimentarvicisi.
La narrazione e l'intero romanzo sono soffusi di magia, resa con un fraseggio limpido e poetico: "Ma un mattino di un diafano ceruleo: sul mare una cappa di silenzio quasi preternaturale, senza però, a conforto quella certa accalmia stagnante; e a imporre segretezza, simile a un dito d'oro attraverso le acque, il lungo riverbero brunito del sole; e le onde che rincorrendosi in punta di piedi confabulavano felpatamente: in quella profonda taciturnità della sfera visibile Dagoo dal colombiere di maestra avvistò uno strano spettro". Qui si passa da una calma innaturale a una sensazione di pericolo imminente, e il traduttore usa con precisione i suoni, insieme ai vocaboli, della lingua italiana; sentite scorrere la molle rotondità di "confabulavano felpatamente" e "profonda" a cui segue, l'interruzione della calma con la durezza del vocabolo che la anticipa: "taciturnità", per poi concludere con il ripetersi delle "ti" e delle "erre", ecco: "uno strano spettro". In breve è possibile vedere il lavoro della traduzione, che non opera solo sulla scelta dei vocaboli, per ricreare l'atmosfera dell'originale, ma inserisce caratteristiche, usualmente riscontrabili in poesia, come il ricorso a consonanze ed assonanze, e a suoni dolci o aspri, a seconda del momento che il lettore sta vivendo. Ottavio Fatica, autore de "Le omissioni", una raccolta poetica del 2009, recupera parole quasi perdute, aggrappate sul margine del limbo tra l'Italiano del Novecento e le sfumature dialettali ancora in uso, un'operazione di salvataggio volta a dimostrare, ancora una volta, la forza del linguaggio o della lingua trasformata in letteratura. E con questa traduzione che rimarrà nella storia del capolavoro di Melville in Italia, afferma il brutale potere della poesia che ci scomoda dalle facili posizioni e convinzioni di anni, per aprirci un mondo nuovo: "Moby-Dick" non è mai stato così vivo e questo vale anche per la lingua che ce lo racconta.
Solo un esempio a caso: tradurre «when the slippered waves whispered together as they softly ran on» con «e l'onde che rincorrendosi in punta di piedi confabulavano felpatamente» (p.329), per quanto mi riguarda è quasi comico, oltre che totalmente velleitario, ma è veniale. Mentre riuscire a comprendere che, in un passaggio immenso nascosto in nota a p.231, dove si dice: «through its inexpressible, strange eyes (dell'albatro), methought I peeped to secrets which took hold of God», quel «which took hold of God» in questo caso non significa «che giungevano a Dio»(come traduce Pavese), o similmente «che toccavano Dio» (nel senso di «grasp», come fa Ruggero Bianchi nella sua pregevolissima versione) ma: «che angosciavano Dio», nel senso di «possedevano», «imprigionavano», «opprimevano» Dio stesso. Beh, allora questo significa arrivare al centro di Moby Dick, e anche di Melville. E penso che valga tante inutili "faticate".
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