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Anno edizione: 2014
Anno edizione: 1997
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Soffocante. A me questa autrice piace molto (es. Un gusto per la morte, Una certa giustizia, etc.) ma a volte le descrizioni e le caratterizzazioni dei suoi romanzi ricordano dei vecchi mobili ingombranti e polverosi che tolgono spazio all'appartamento e luce all'ambiente.
Recensioni
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VINE, BARBARA, Il tappeto di re Salomone, Corbaccio, 1995
JAMES, PETER D., Morte sul fiume, Mondadori, 1995
GEORGE, ELIZABETH, Un pugno di cenere, Longanesi, 1995
Recensione di Bertini, M., L'Indice 1995, n. 5
recensione pubblicata per l'edizione del 1995
Sino alla fine degli anni settanta, nulla era più comodo da portare in giro di un giallo di classica ambientazione inglese. Bastava la tasca del giaccone o una normale borsetta: Agatha Christie o Edgar Wallace ci entravano senza la minima difficoltà, anzi, spesso addirittura convivevano, per la delizia di un lettore maniacalmente affezionato ai perplessi sovrintendenti di Scotland Yard, ai loro eccentrici amici aristocratici e all'alternarsi di sfondi londinesi e di fastose residenze di campagna. Se lo stesso lettore oggi volesse ingannare la noia di un viaggio in treno portandosi appresso un paio dei romanzi di cui tratta questa recensione, dovrebbe disporre di una solida valigia, di tasche capienti quanto quelle di Harpo Marx, e soprattutto di una colonna vertebrale d'impeccabile acciaio.
Le 675 pagine di "Un pugno di cenere" sono forse un caso limite; ma è un fatto che di anno in anno i bestsellers di P. D. James e di Ruth Rendell (che adotta, per i romanzi più anomali rispetto agli stereotipi del poliziesco, lo pseudonimo Barbara Vine) si allontanano sempre più dalle classiche dimensioni di "Dieci piccoli indiani", per raggiungere la ragguardevole mole dei 'fruilletons' del secolo scorso. Non che il nuovo giallo di scuola inglese discenda dal 'feuilleton'; non ne ha il ritmo forsennato, n‚ gli schemi morali e psicologici rudimentali. Le sue origini vanno cercate altrove. A me pare possano ricondursi a un incrocio tra il giallo classico alla Christie e la poetica del romanzo realista di Balzac e di Dickens. Dal giallo classico viene la macchina dell'intreccio poliziesco. Se però nel mondo di Agatha Christie questa macchina funzionava senza intoppi, isolata nell'atmosfera di un'ambientazione tutta convenzionale, nei romanzi di Ruth Rendell e P. D. James è sottoposta invece a una sorta di sistematico sabotaggio. I suoi ingranaggi sono costretti a un continuo, esasperante attrito con la realtà; quella stessa realtà psicologica e sociale che l'onnivoro romanzo ottocentesco aspirava a inglobare, a rappresentare esaustivamente.
Nell'"Uomo dei treni" la realtà che con le sue intrusioni rallenta la macchina narrativa è il mondo della metropolitana di Londra, dove si può morire schiacciati dalla folla, conoscere l'ebbrezza della corsa proibita sul tetto di un vagone, perseguire folli disegni di terroristica vendetta o suonare Mozart ai piedi di una scala mobile. Nell'"Uomo dei treni" avvengono tutte queste cose, e altre ancora; ma quel che avvince di più il lettore non sono gli avvenimenti, è la voce dell'autrice che li interrompe per raccontare - tra aneddoti, statistiche e particolari tecnici - la storia della metropolitana di Londra. Il testo che ne risulta ha il fascino disarmonico e grandioso di quell'"epica moderna" in cui Franco Moretti ha additato di recente, nel suo "Opere mondo", la forma narrativa peculiare del nostro tempo.
In "Morte sul fiume" e in "Un pugno di cenere" la routine del poliziesco riprende tutti i suoi diritti. L'intreccio si dipana in entrambi i casi partendo da un omicidio, che un ispettore di Scotland Yard è chiamato a chiarire ricostruendo l'ambiente d'origine della vittima e dei possibili colpevoli. L'ambiente affrontato dall'ispettore Dangleish in "Morte sul fiume" è quello di una prestigiosa casa editrice, mentre in "Un pugno di cenere" il suo collega Lynley deve ripercorrere la vita passata di un campione di cricket troppo amato dalle donne. Se Rendell-Vine è ineguagliabile per l'occhio sociologico, P. D. James è più sensibile alle contraddizioni e agli enigmi dell'interiorità, ancora una volta per Adam Dangleish, il poliziotto colto che scrive versi un po' eliotiani, l'indagine è soprattutto un itinerario tra dolorosi problemi etici, che il suo saggio pessimismo si rassegnerà a lasciare in gran parte irrisolti.
Le somiglianze tra Lynley e Dangleish sono così pronunciate da denunciare una filiazione evidente: nato parecchi anni dopo Dangleish, Lynley ne è una sorta di clone, come lui melanconico, lucido e riservato. Elizabeth George, americana, con diligenza encomiabile gli ha costruito intorno una Londra topograficamente perfetta; poi, in un'apoteosi di fervida anglomania, ha fatto di lui, addirittura, l'ottavo conte di Asherton, un lord con tanto di maggiordomo. A questo punto, ogni traccia di credibilità dell'ispettore si è persa per strada; e le cose non miglioreranno quando lo vedremo fare jogging in Hyde Park o salvare a nuoto nel Tamigi un teppista sospetto di parricidio. Il mondo di Rendell e James è lontano. Ben tornati, con "Un pugno di cenere", nella Londra irreale di Edgar Wallace.
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