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Anno edizione: 1991
Anno edizione: 2016
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recensione di Fortini, F., L'Indice 1992, n. 4
Nella premessa alla ristampa (benissimo pubblicata), dopo dodici anni, di un volume che il maggiore fra gli odierni studiosi del Pascoli ha dedicato al commento d¡ "Myricae", Giuseppe Nava scrive che i motivi dell'incremento della bibliografia pascoliana nello scorso decennio e del successo di quella poesia fra i "lettori di poesia" e nelle aule universitarie non possono essere spiegati "con ragioni puramente letterarie" e non resta che rimettersi agli storici della cultura e agli studiosi di sociologia della letteratura.
Cronisti della cultura e microsociologi della letteratura lo siamo un po' tutti; e, dopo una parziale eclisse nel periodo 1935-55, della ripresa di attenzione non solo specialistica al Pascoli ci si era potuto rendere conto, per quanto è dei "lettori di poesia", dalle pagine di Pier Paolo Pasolini, sul primo numero di "Officina", 1955 e, più ancora, dalle poesie di "Le ceneri di Gramsci". Invece il saggio di Gianfranco Contini, che si pubblicò nel 1958, avrebbe tardato a dare i suoi frutti.
Con una qualche approssimazione, mi pare si possa però dire che attenzione e studi filologico-accademici non sono mai mancati, crescendo semmai in densità nelle vicinanze di celebrazioni centenarie e convegni, soprattutto dagli anni settanta a oggi. Nava rammenta, fra altri, Traina, Perugi, Garboli, Capovilla, Treves, Leonelli, Chani; oltre "ai già benemeriti" Felcini e Pazzaglia. Invece l'atteggiamento dei lettori (e anche degli autori delle antologie scolastiche) mi pare sia mutato secondo un cangiamento del gusto divenuto sensibile intorno alla prima metà dei settanta, quando l'ala "destra" del sommovimento intellettuale del decennio precedente mosse verso un recupero e una esaltazione del decadentismo "storico", soprattutto di quello centro-europeo. Più che ai nostri simbolisti e dico, decadenti e liberty (e ai francesi) si guardò all'arte monacense e viennese, alla poesia russa e inglese. Tornando da Vienna non pochi si fermarono a Castelvecchio. Dietro il Pascoli della "Cavallina storna" o di "L'aquilone" (divenuti quasi lazzi da avanspettacolo) essi restavano imbarazzati da quello di "Italy" o del "Ciocco", ma, soprattutto, dei "Conviviali".
Mengaldo ricordava in una sua introduzione a "Myricae" (1981) che quella raccolta era stata privilegiata, non solo dalla tradizione scolastica ma dalla critica degli anni dieci e venti (Croce e Cecchi) e da quella, in lato senso, marxista, del secondo dopoguerra (Sapegno, Seroni, Trombaore, Salinari, Sanguineti, Asor Rosa) mentre dal saggio di Petrini (1929-30) era proceduta sia una comprensione equamente globale di tutte le raccolte del Pascoli (Baldacci, 1974) sia una simpatia per il Pascoli georgico o "cosmico" (simpatie, dice Mengaldo, cattoliche e/o junghiane).
Posso testimoniare solo per me: ma quel che negli anni medesimi degli studi del Petrini venivo accogliendo, ragazzo, dal piccolo volume Zanichelli delle "Cento poesie", che mi portavo in tasca, e da quello, ricco come un premio di virtù, dei "Canti di Castelvecchio", era - me ne posso rendere conto solo oggi - non davvero il "classicismo" di "Myricae", la nettezza della visione, i 'realia' di quella poesia; ma tutto un convoglio di stati d'animo e immagini di un decadentismo centro-europeo, fra Ibsen (che, proprio per Pascoli, Contini ci rammenta), e Zarathustra, Boecklin e De Carolis. "Fides" e "Paulo Ucello", già sui dieci o undici anni li sapevo a mente (dove si confondevano a centinaia di versi carducciani); ma se il primo mi faceva ridere, il secondo mi incantava. Avevo torto, d'accordo; pero con i pellegrinaggi cherubini di "La morte del Papa", con "Andrée", "Tolstoi", "Nel carcere di Ginevra", "Il naufrago", "Rossini", "Clauco", "L'ultimo viaggio", "Digitale purpureo" (e così via senza troppo distinguere) ho dribblato D'Annunzio. Me ne restò, negli anni successivi e fino a oggi, attrazione mista a repulsione, come per certi animali da acquario. Forse è per questo che, col Pascoli, mi sono comportato come non so chi disse dovessero fare i francesi dopo il 1870 con le loro province perdute: "Pensarci sempre e non parlarne mai". (E il gran merito di Garboli è di aver capito fino in fondo quella "mostruosità" del Pascoli, facendone un personaggio sinistro e cereo, maschera di una nazione infelice).
Di ogni poesia Nava fornisce la storia della composizione e una cartografia non solo delle possibili "fonti" ma delle aree contigue del "tema"; un'analisi del metro (per curiosità: Nava parla di "richiamo monosillabico" per il celebre "chiù" di "L'assiuolo", p. 188, mentre a me, come a Mengaldo nella sua introduzione a "Myricae" per Rizzoli, pare bisillabo tronco) e una disamina dei fonosimbolismi; e una puntigliosa annotazione che precisa forme sintattiche, figure retoriche e ricorrenze intertestuali col corpus pascoliano (preziose in particolare quelle con l'opera in latino). Il lettore si avvedrà che molto spesso quelle che sono sorprendenti novità, soprattutto nell'ordine delle sinestesie e delle metafore, rimandano ai classici, latini (Virgilio, naturalmente, e Orazio e Catullo) ma soprattutto greci, Omero Esiodo Saffo; e avrà a disposizione i dati degli imprestiti dalla poesia straniera e da quella coeva italiana. Questa, all'ombra del Carducci, chiama in causa il Ferrari, il Marradi, il Panzacchi, ma anche Praga, Betteloni, Prati, Zanella e, più in là, Tommaseo e Manzoni; quella, lo Heine in più traduzioni di quel tempo e forse anche direttamente nel testo tedesco; poi quasi tutti i francesi del suo secolo, soprattutto Hugo poeta e Michelet veggente; fra gli inglesi Poe' oltre a Tennyson, il poeta di "I Lotofagi", così prossimo al tono di "Gli emigranti della luna" o di "Gog e Magog". Un cinquantennio di cultura europea passa nella sempre velata pupilla pascoliana, ma selezionata e disposta su due dimensioni da una divorante coazione che ripete di continuo, di poco variandola, la favola di se stessa; e investita da un'ossessione che tutto condanna a un irrespirabile teatro interiore: dal lavoro di note di Nava tutto questo il lettore riceve, non solo l'esegesi che - come si legge nella premessa -"per ragioni di moralità critica" va anteposta al momento interpretativo, rifiutando la diffusa tendenza a ridurre i testi alle intenzioni di lettura dei suoi interpreti. Ossia proprio quel che, bisogna dirlo, Pascoli lettore e dantista faceva, si può dire, a tutto spiano (sotto lo sguardo irritato del Carducci...), anche per potere, regnando su fantasmi, sempre più insaziabilmente scrivere e limate i propri versi. Anche in questo, purtroppo, nostro contemporaneo, dopo un secolo. Delle 165 poesie che oggi si leggono come "Myricae", per la prima volta ventidue comparvero sotto quel titolo virgiliano nel 1891. Sei mesi più tardi la seconda edizione ne recava già settantacinque. Era il gennaio del 1892.
E dunque leggi e rileggi. Non sai più per chi senti dolenza, se per la poesia, se per Giovannino o per te. Di tanto in tanto qualcosa che non avevi mai avvertito si spicca con un bagliore "tra le interrotte ombre", come una bacca nel sottobosco: nell'ultimo (e debole) madrigale della serie "Finestra illuminata" (quella di Montale invece, quarant'anni dopo, per accidioso fumo sublime "non si illumina") leggo: "intorno a te le cose / fanno piccoli cenni di tacere". Di lampi come questo è trapunta tutta l'opera del Pascoli, davvero - e si dovrebbe dire: purtroppo - il nostro maggiore dopo il silenzio di Leopardi.
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