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Titolo e copertina non traggano in inganno. Nascita e morte della massaia non è una prefigurazione delle desperate housewives di Wisteria Lane e ha poco a che vedere anche con i referti dell'infelicità domestica femminile nella middle class americana tra anni cinquanta e sessanta, alla maniera del Diario di una casalinga disperata di Sue Kaufman recentemente riproposto da Einaudi. È una romanzesca macchina celibe, un coacervo di invenzioni e di provocazioni, una scheggia impazzita staccatasi da una stagione letteraria di cui è al tempo stesso l'epitome e l'epicedio. È, anche, uno dei quei libri-cometa che appaiono, scompaiono e riappaiono nel firmamento editoriale riverberando ogni volta la luce del tempo, senza riuscire a diventare stelle fisse.
Paola Masino amava ricondurre la genesi del suo romanzo a una privata nevrosi domestica, che a Venezia, dove viveva con Massimo Bontempelli, monopolizzava i suoi giorni in un'incessante crociata contro la polvere. Ma, più che l'occasione autobiografica, contano le date di stesura: 1938-1940, gli anni più tetri del regime fascista e insieme del tramonto di quel clima culturale, all'incrocio tra surrealismo, metafisica e realismo magico, nel quale Masino era nata come scrittrice. La censura prima, poi la guerra, ritardarono l'uscita del romanzo al 1945, e si capisce come quel frutto tardivo di un'avanguardia a sua volta fuori tempo massimo non potesse acclimatarsi nell'habitat neorealista. La ristampa del 1970 cadde in un contesto più favorevole agli sperimentalismi, ma neanche allora Masino, a differenza di Gadda, ebbe i suoi nipotini; semmai delle nipoti adottive, le lettrici che dodici anni dopo, complice il marchio militante della Tartaruga, la elessero ad antesignana della liberazione delle donne, senza scorgere nel suo femminismo ante litteram le tracce di un rapporto tutt'altro che pacificato con la femminilità.
La quarta vita del romanzo si deve oggi alla casa editrice Isbn, che proprio con Nascita e morte della massaia inaugura la collana "Novecento italiano", diretta da Guido Davico Bonino con l'intento dichiarato di "rileggere alla luce dell'oggi opere della letteratura del secolo scorso che, per le più disparate ragioni, sono state dimenticate dagli editori e dagli studiosi e che perciò restano sconosciute o poco note all'ultima generazione di lettori". Insieme al libro di Masino, escono per ora dal limbo del Novecento Zebio Còtal di Guido Cavani (cfr. "L'Indice", 2009) e Facile da usare di Oreste del Buono, mentre si attendono a breve Il campo 29 di Sergio Antonielli e La vita intensa di Bontempelli.
Accompagnato da una postfazione e una nota biografica di Marina Zancan, Nascita e morte della massaia va dunque incontro a una nuova generazione di lettori: postmoderni, a loro modo "postumi", orfani di avanguardie come di ideologie, forse i più adatti ad attraversare senza preconcetti questo inquietante monolito narrativo, che si apre sul bordo di un baule pieno di croste di pane, libri e relitti di funerali, stupefacente incarnazione di quel mito dell'infanzia che per Masino è innanzitutto il vagheggiamento di una condizione di spietata chiaroveggenza e di fatata, fatale contiguità con la morte. L'essere torvo e maleodorante che lo abita non è una bambina che non vuole crescere, ma una creatura indifferenziata che non vuole nascere. Resiste, si barrica in quel surrogato di utero, commercia con il mistero dell'origine, recalcitra di fronte alla necessità dell'individuazione. Fino al giorno in cui cede, convinta dalle insistenze materne e da un'oscura vocazione al martirio.
Ma entrare nel mondo è più difficile che uscirne. È una fatica biblica: e infatti ci vogliono sei giorni, non a Dio bensì a uno stuolo di cameriere, parrucchiere, estetiste e manicure, per estrarre la donna da quel "grumo di pensiero". Così la massaia si libera della sua spoglia, come Pinocchio della carcassa del burattino, e durante una festa che l'autrice orchestra con furore avanguardistico, facendone un po' un ballet mécanique un po' una parodia del giudizio universale, fa il suo ingresso trionfale nell'inautentico: rinuncia all'amore, sposa un zio anziano di inossidabile ottusità e prende possesso della casa di cui diventerà la padrona e la schiava, portando nel suo nuovo ruolo l'antico vizio del pensiero.
Nella "carriera" della massaia, promossa a perfetta padrona di casa e infine a benefattrice ed esempio nazionale, si può leggere il diagramma di una nevrosi femminile di cui Masino registra ogni tappa: la sublimazione delle pulsioni sessuali in un perfezionismo senza scopo, la giovanile aspirazione all'assoluto deviata su incombenze meschine, la vita ridotta al suo involucro sociale e alla miseria delle necessità materiali. Ma Nascita e morte della massaia non è un pamphlet protofemminista. È un romanzo massimalista in cui la sua autrice ha cercato di far entrare tutto, anche a costo di incepparne l'ingranaggio narrativo: la satira dei cerimoniali e dei falsi valori borghesi; il virtuosismo allegorico e le divagazioni filosofeggianti; gli splendori e le miserie della letteratura, tradotti in un fuoco d'artificio di generi e di stili dove il siparietto di teatro dell'assurdo si alterna alla pagina di diario, il registro onirico alla parodia dei classici, la citazione biblica al nonsense. Infine, e soprattutto, un senso quasi nichilistico della vanità dell'esistenza che, constatata l'impossibilità della tragedia, si vendica vestendo i panni della farsa.
Beatrice Manetti
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