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Terre esterne: il suggestivo sintagma che funge da titolo per il nuovo libro di Matteo Meschiari compare una sola volta all’interno del testo, quando, illustrando la contrapposizione tra «linea ligure» e «linea lombarda» nel trattamento dello spazio (a ciascuna dedicata una delle due parti in cui si divide il libro), l’autore afferma che esiste «un altro modo del paesaggio moderno» – altro rispetto al paesaggio-stato d’animo di origine romantica –, un modo che riconosce «l’autonomia silenziosa della materia, la vocazione verso le terre esterne, dove l’uomo e la sua chiacchiera metafisica finalmente, inesorabilmente si dissolvono».
Si tratta, com’è evidente, di un momento fondamentale del libro, in cui l’ipotesi che il paesaggio non sia un «dato [...] bensì un processo» (così Cortellessa in chiusura alla sua introduzione) viene pienamente enunciata. Non certo che altrove non sia più volte chiarita la matrice anarchica e fenomenologica, anti-metafisica (ma anche profondamente irrazionalista) che sorregge l’indagine di Meschiari: si potrebbero al contrario citare decine di passaggi in cui la sua impostazione di base viene affermata in termini franchi e decisi. Ma è in quelle righe, poste a mezzo tra le due parti del libro, che l’autore propone con piena sicurezza la sua poetica dello spazio, la concezione antropologica e psicologica che regge il suo particolarissimo – mi sia consentito l’ossimoro – idealismo materialista.
Giancarlo Alfano
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