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Anno edizione: 1996
Anno edizione: 2003
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scheda di Pischedda, B., L'Indice 1996, n.10
Pochi nomi di luoghi e di persone cambiati non possono ingenerare dubbi: a proporsi, è un romanzo marcatamente autobiografico. Il cui punto di vista, abbassato e però curioso, reattivo, è fornito da un bambino e poi adolescente, Matteo, in un'Italia contadina che sta rapidamente mutando verso indici di urbanesimo industriale. L'ambientazione nei paesini della dorsale appenninica, tra Modena e Bologna, suggerisce una ricca tavolozza di paesaggi e di colori, di odori, di parole geograficamente connotate e dall'intenso valore affettivo ("sfiòppole", "buridoni", "smaloccavano", "tamarazze"). Ma subito accanto, ecco l'epopea modernista delle lambrette e delle seicento, le immagini malcerte dei televisori , la gioia, addirittura, che potevano suscitare le prima code automobilistiche su contrade dianzi solitarie. Il tutto senza nostalgie, anzi nella consapevolezza ferma delle brutture e degli scompensi economici su cui quella modernità si veniva dispiegando. È da uno sfondo siffatto, contrastato sino ai limiti di un manicheismo di maniera, che emerge la figura del professor Ugo Santini. Nel tratteggiarla con devozione filiale, il narratore insiste sulle sue radici cattoliche e piccolo-borghesi, sugli ideali di progressismo egualitario che ne hanno motivato la scelta antifascista: in forza dei quali giunge a occupare nel dopoguerra un ruolo di punta nella Dc emiliana. Sopravvengono poi le grandi speranze e i fallimenti del centrosinistra, il movimento conciliare, il moroteismo, il '68. Fermenti ineludibili che agli albori dei settanta spingono lui, un posato "illuminista di campagna", sotto le bandiere del Partito comunista. Per quanto minoritario, è un percorso esemplare, storicamente e sociologicamente accertabile, quello di "Ugo il rosso". L'autore ce ne lascia intravedere la vicenda con accenti di intima verità, dando vita a un personaggio tutto sommato inedito nel paesaggio letterario recente. Per trovargli un alter ego, occorrerebbe risalire a quell'Emanuele Frangipane che Sciascia nel 1965 inscenava ne "L'onorevole". Ma con segno invertito. Deprecando cioè la sorte di certa intellettualità umanista di provincia, strappata a un donchisciottismo inconcludente e proiettata negli anni del boom economico nelle adiacenze di un potere cinico e corruttore. Marco Santagata era noto sin qui per gli studi che da quasi un ventennio ha dedicato al Petrarca: in un arco che comprende "Dal sonetto al Canzoniere" (Liviana, 1979), fino a "I frammenti dell'anima" (Il Mulino, 1992) - e mentre si annunciano nei "Meridiani", sotto la sua direzione, i due volumi delle "Opere italiane di Francesco Petrarca". Più di recente, sulle pagine del "Corriere" e dell'"Unità", avevamo apprezzato la verve del polemista culturale. Non è che stupisca trovarlo ora nelle vesti del narratore. Colpisce forse quel grano di timidezza, di rattenutezza rasserenante che non gli conoscevamo. Perché infine, di questo padre che non era comunista, una volta chiuso il libro, ci resta come una malinconia: ne avremmo voluto sapere di più, tanto ci era caro.
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