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“Partimmo all’alba, di fretta, prima della prima fucilazione, senza mangiare. (…) Era notte, si gelava. La strada era più dura della pietra. Camminammo a lungo senza fermarci, nel freddo, sotto un cielo ghiacciato, ma un po’ felici, capite” (p.12) Polonia, Seconda Guerra Mondiale, una gelida giornata invernale, tre soldati tedeschi, riservisti e quarantenni: Bauer, Emmerich e l’io narrante, di cui non si fa mai il nome, sono i membri di una compagnia impiegata per le esecuzioni. “(…) le fucilazioni non ci piacevano, (…) oramai ci buttavano giù, e di notte ce le sognavamo. La mattina, appena ci pensavamo, ci deprimevano, e avremmo finito per non sopportarle più (…)” (p.11). Per evitare il compito, ormai insostenibile, di fucilare gli ebrei condotti nel campo di concentramento, ottengono dal loro Comandante, anch’esso prostrato nel fisico e nella mente dall’orrore (“Le carneficine l’avevano invecchiato più di noi. Era dimagrito e a volte sembrava un po’ perso... ”, p.12), il permesso per un incarico all’esterno: devono snidare i sopravvissuti nascosti nella campagna circostante. Compito, secondo loro, più tollerabile: ma è effettivamente così? Cambia qualcosa tra eseguire una fucilazione di persona, o fornire semplicemente carne da macello, perché altri la sopprimano? “L’alba era ormai lontana. Decidemmo di fare ciò per cui il nostro comandate ci aveva lasciato andare. Soprattutto per gratitudine. Ci sentivamo in debito per essere scampati alle fucilazioni. (…) Ma in fondo non ci credevamo. Non pensavamo di trovarne. (…) Dovevamo spingerci verso i boschi, verso la foresta. D’inverno era l’unico posto dove potevano sperare di passare, e noi di trovarli” (p.27). Senza crederci e senza zelo vagano in mezzo a un mare gelato con una luce pallida e un cielo d’alluminio. Finché Emmerich nota che alcuni alberi, sul lambire della foresta, non hanno la caratteristica brina e scopre così un giovane ebreo rifugiatosi all’interno di un buco scavato nella terra ghiacciata, probabilmente, prima dell’inverno: “Una volta in piedi alzò le braccia. Non un lamento, non una parola, non udimmo nulla. Come se aspettasse. Neanche nel suo sguardo vedemmo nulla, né paura né disperazione. A malapena lo sentivamo respirare attraverso il foulard. (…) gli occhi (…) erano sporchi e cerchiati (…) erano stanchi ma ancora pieni di luce” (p.33). Il giovane non ha nome, come da consuetudine, ai fini della spersonalizzazione che avviene per ogni individuo negli stermini di massa. Come fosse una piece teatrale, da qui in poi, tutta la parte più importante del romanzo si svolge in: “(…) una sporca casupola polacca. (…) Era inquietante. Sembrava che il tetto, con tutto il ghiaccio e la neve che sopportava, avrebbe fatto sprofondare la casa sotto terra. Le imposte di assi nere erano chiuse. Una grondaia penzolava. L’intonaco fra le pietre si stava sgretolando. La porta non era a piombo, mancava un cardine. Era chiusa a chiave” (p.39) dove si cerca di cucinare un pasto caldo, prima di tornare al campo. Un pasto che, con sgomento di alcuni, è esteso anche all’ebreo fino a quel momento rinchiuso all’interno dello sgabuzzino. “Così cominciò il pasto più strano che facemmo in Polonia. (…) Le fiamme nella cucina ci facevano luce da dietro, mangiavamo e le nostre ombre ci accompagnavano danzando sulla tavola” (p.99). Proprio intorno a quella strana tavola si comincia a insinuare un atroce dubbio: si può portare alla morte colui con cui si è diviso il pasto? Tutti, infatti, sanno: “che con loro era meglio non fare niente che assomigliasse alla vita” (p.96). Poi, come un fulmine a ciel sereno, l’affermazione di Emmerich che sconvolge le coscienze degli altri due, che apre un ampio dibattito fra i commilitoni ed è il fulcro del romanzo: “Lasciamolo andare, questo qui” (p.102). Basta salvare una vita per salvare il mondo intero, o per salvare se stessi? L’originalità del libro, breve e intenso con una scrittura scorrevole e visiva, risiede nella scelta del punto di vista che è quello dei soldati tedeschi. Per Hubert Mingarelli la sfida è stata pensare come i carnefici. Da una parte, lo scrittore, proprio attraverso gli occhi, distingue i personaggi: quelli dei carnefici sono due buchi da cui penetra il freddo e rilevano, quindi, la vacuità di uno sguardo privo di umanità; gli occhi della vittima ebrea sono invece pieni di luce e mettono in risalto l’anima. Dall’altra cerca di rintracciare in loro un barlume di umanità. Troviamo l’io narrante che è straziato dalle tenere attenzioni materne e soffre per le madri che un giorno si erano date tanta pena: “Perché se volete sapere cos’è che mi faceva male, e che mi fa male ancora oggi, era vedere quel genere di cose sugli abiti degli ebrei che avremmo ucciso: un ricamo, dei bottoni colorati, oppure un nastro tra i capelli” (p.65). Emmerich, invece, è in costante pensiero che il figlio, lasciato senza guida, possa iniziare a fumare e che l’ebreo, catturato proprio per “merito” suo, possa congelarsi all’interno dello sgabuzzino nella casupola: “L’aiuto di Bauer l’aveva scosso e reso tutto fiero e pieno di bontà. Era già così normalmente, ma adesso ancora di più” (p.81). Può un nazista cambiare? Lo scoprirete solo leggendo il libro.
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