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scheda di Vittori, M.V., L'Indice 1998, n. 8
Come prima notizia di sé, l'io narrante ci comunica che ha un padrone. E gradualmente, con la descrizione di questo padrone, tale Luigino Pizza, capo-clan di uno dei tanti clan napoletani, e delle sue mansioni di brutale esecutore di intimidazioni e ritorsioni, si delinea in pochi tratti essenziali un microcosmo di ordinaria malavita. Per uno sgarro involontariamente commesso alla sorella di un boss, Pericle - questo il nome incongruamente classico dell'uomo-cane - si fa terra bruciata intorno. Gli ammazzano gli unici parenti rimasti, quelli con cui vive; scampato fortunosamente al massacro, si rintana in un buco come un animale braccato, fino a quando non riesce ad allontanarsi. Conosce una donna, Natascia; torna per la vendetta, ma poi si prepara ad andarsene. Per sempre, e magari proprio con Natascia. Fin qui, il copione allestito da Giuseppe Ferrandino sembra uguale a tanti altri di stampo noir: ma la diversità, l'anomalia sta nel punto di vista da cui vengono registrati gli avvenimenti, quello di una persona limitata qual è Pericle: scarsa intelligenza, un esiguo numero di schemi entro cui sistemare la complessità del reale, uno scarno gruzzolo di parole per definire cose e persone. Ricorda uno di quei personaggi cari ai narratori sperimentali degli anni sessanta, che riuscivano a ricondurre ogni genere di storia naturalistica lungo i binari della riduzione al grado zero: sottrazione graduale di orpelli e artifici narrativi fino a far emergere i tralicci portanti della realtà. Una realtà che, come sostiene Pericle, non si fa comunque influenzare o condizionare dai pensieri: "è più conveniente fare, perché tanto a pensare ti attacchi al tram". Cosicché Pericle è puro congegno reattivo e istintuale, e lo schema dei suoi impulsi e delle sue reazioni è riprodotto da un nitido tracciato ritmico, da una scrittura talmente spoglia e rigorosa da eludere perfino le tentazioni coloristiche del dialetto.
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