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Anno edizione: 2019
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Ci sono i libri che ti scavano nel profondo e tirano fuori un groviglio di emozioni e pensieri accumulatisi nel corso degli anni e ti costringono a un'ineluttabile ma catartica singolar tenzone. Cecilia Ghidotti ha tanto da dire sulla nostra generazione del disagio, e nello specifico sul disagio al quadrato che è la periferia del mondo accademico. Non si tratta di disfattismo, in realtà: è piuttosto un perenne senso di imbarazzo e inadeguatezza. È la perplessità, lo spaesamento (letterale e metaforico) del dover/voler/poter vivere l'esperienza di un altrove che è insieme opportunità preziosa e scissione irresolubile. È il sapere di avere fatto del proprio meglio e vedere che non basta, ma allo stesso tempo la consapevolezza di avere comunque una vita privilegiata, di aver potuto fare esperienze che a tanti altri sono negate, senza neanche stare a scomodare le situazioni più tragiche. È il dover giustificare la propria presenza in un luogo quando non si è mai veramente incasellati. Racconta Cecilia: "Andiamo in giro per le strade piene. È bello girare con qualcuno che conosce tutti: nessun problema di lingua, di decodifica, io sono l'amica di Bianca, [...] io esisto come amica e lei garantisce per me." E poi ancora, raccontando di quando è stata selezionata come drammaturga: "Nelle conversazioni facevo lunghi giri solo per arrivare a pronunciare le parole 'workshop residenziale', quasi segnassero il punto di partenza di una nuova vita che, da lì in avanti, sarebbe stata organizzata intorno a settimane di lavoro intenso su progetti sempre nuovi e meravigliosi". Un procedere per incrementi esperienziali che ben conosco. Se anche voi vi siete ritrovati in queste parole, leggete Il pieno di felicità: riderete, vi arrabbierete, gioirete di ogni piccolo traguardo, e si vi capita di versare una lacrimuccia sui nachos, sulle benzodiazepine o su qualsiasi altra cosa, sarà una lacrima di vicinanza profonda, ontologica, viscerale.
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