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Anno edizione: 2014
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"'Pietroburgo' è un continuo alternarsi di orgasmo, psicosi, spavento, un groppo di ambasce, incertezze, inquietudini. Come l'intellighenzia russa in quegli anni, i personaggi vivono tutti nell'ansietà di catastrofi, coi nervi tesi, con l'animo inasprito sino all'isteria. Belyj si industria di irritare il lettore, incalzandolo per gineprai psicologici, per giravolte azzardose, investendolo con zaffate di orrori, che si susseguono a ritmo stringente [...]. Vi sono nel romanzo cataste di orrori. Questo Barnum del raccapriccio è insuperabile nell'arte di suscitare vampate di ribrezzo, soffi di repulsione agghiaccianti brividi." Ecco. Meglio di Angelo M. Ripellino, non potevo dire. Alcune descrizioni sono spettacolari; sono dei tetri flash allucinati su anime e luoghi di incredibile fascino e suggestione in cui aleggiano gli afflati di Dostoevskij, Gogol' e Joyce, ma è una lettura, per il mio bagaglio letterario insufficiente, ancora troppo difficile. Non è un romanzo, né un saggio, né una cronaca o un memoriale: è un animale smembrato. "Una scrittura amorfa, sconnessa, traboccante, tutta sgocciolature e incrostazioni, una matassa di impulsi caotici, di ghirigori, di ingorghi limacciosi, di garbugli inestricabili. Un magma verbale in cui schioccano a tratti, con un freddo crepitio elettrico, i cavilli del raziocinio."
La locuzione "pericolose teorie etnografiche", intelligentemente utilizzata da un altro commentatore (l'eco dei gaddiani ossobuchivori si insinua con prepotenza in ogni ponderata parola di quel serissimo commento) è ormai diventata per me sinonimo di certa critica letteraria ossessionata dal riportare l'insolenza dell'opera d'arte negli ordinati ranghi della quotidiana e consolante mediocrità. A costoro non si può rimproverare di non aver compreso i Pietroburgo, ché forse questo è il loro unico merito; ma di aver tentato di riportare al significato questi tempestosi flutti di significanti, sfiorati dal livido lucore lunare dell'Arte. Opera immensa.
L'alta valutazione premia esclusivamente lo stile,ché davvero raramente ho avuto l'opportunità di imbattermi in una prosa tanto sopraffina,così generosamente ricca di miraggi nebbiosi,architetture fantasmagoriche,scintillii di caroselli multicolori e vertiginoso lirismo. Ahimé (un ahimé grande quanto la Cattedrale di San Basilio)giudizio che non può estendersi all'intero romanzo, oberato come è da una trama maldestra confusa opaca talvolta fino all'astrusità,dispersa nel delirio onirico dell'aurea scrittura.Ho avuto l'impressione che l'autore abbia tentato un numero di giocoleria al di là delle sue forze, volteggiando un'arancia, un birillo,una fiaccola fiammeggiante e una motosega in funzione;elementi affascinanti e discordanti che,tuttavia,per quanto abile,ha mancato di armonizzare,compiendo in ultimo un mezzo strafalcione.Una trama abbastanza intricata,l'interesse spiccato per i sommovimenti sociali,analisi psicologiche-piuttosto goffe-,insomma i canoni della letteratura realista a spasso su ginocchia malferme in una brumosa atmosfera brulicante di incubi e sogni,altalenanti paranoie.Alla fine(a cui, confesso,si arriva a forza di sprone e non senza qualche ostacolo)i lumi sull'accaduto vacillano e sulla lingua perdura solamente il dolcissimo nettare della prosa regale. Sono giunto a questa lettura su consiglio di Nabokov,che lo colloca accanto all'Ulisse,La Metamorfosi e la Recherche come capolavori del 900.Stimo moltissimo Nabokov, è un autore unico di cui sono fedele lettore,ed è proprio perché conosco i suoi scritti pregni di memorie e nostalgie che lo so innamorato e orgoglioso della sua patria perduta (terra di un'infanzia fatata tra giochi sfrenati in turbinii di nevischio,cacce alle farfalle blu,feconde letture di gloriosi scrittori di un vicino passato)al punto da essere disonesto con se stesso nel voler annettere annettere a tutti i costi alla casta di indiscussi capolavori universali sopracitati un romanzo russo,per quanto imperfetto sia
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