Una politica estera per la sinistra - Michael Walzer - copertina
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Una politica estera per la sinistra
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Descrizione


Un tempo la politica estera, per le persone di sinistra, era relativamente semplice. Le persone di sinistra erano per l’abbattimento del capitalismo e per la sua sostituzione con un’economia pianificata centralmente. Erano a favore degli operai contro gli interessi finanziari e a favore dei popoli colonizzati contro i poteri imperiali

«Addio comunismo e futura umanità: ma allora a cosa serve quella che un tempo fu l'Internazionale? Il politologo della Rivoluzione dei santi un'idea ce l'ha, e la svela nel nuovo libro: ripartire da solidarietà e mobilitazione. E, udite udite, dallo Stato.»Robinson

Oggi il capitalismo neoliberale sta trionfando e il movimento operaio è in declino. I movimenti di liberazione nazionale hanno prodotto nuove oppressioni. Una politica anti-imperialista applicata meccanicamente può trasformare le persone di sinistra in apologeti di gruppi moralmente aberranti. Secondo Michael Walzer, la sinistra non può più assumere posizioni automatiche, ma deve procedere da principi morali chiaramente articolati. Le persone di sinistra dovrebbero pensare alla scena internazionale – all’intervento umanitario e al governo mondiale, alla disuguaglianza globale e all’estremismo religioso – alla luce di un insieme coerente di valori politici di fondo.

Dettagli

27 settembre 2018
209 p., Brossura
9788832850307

Valutazioni e recensioni

  • Dall'agenzia "9 Colonne" Michael Walzer, uno dei più importanti pensatori politici statunitensi e per più di trent’anni direttore della rivista politica Dissent, è arrivato nelle librerie italiane con il libro “Una politica estera per la sinistra” (Raffaello Cortina Editore, 2018, 210 pagine, 20 euro). Si tratta, tranne un solo capitolo del libro, di una raccolta di saggi pubblicati negli ultimi decenni per lo più sulla rivista che dirigeva. In questo lavoro, quando parla di Sinistra intende principalmente quella degli Usa, ma spaziando anche in Europa, dove essa è nata. E intendendo, con questo termine, tutti coloro che Sinistra si definiscono: gli “esponenti della vecchia sinistra e della nuova sinistra, i comunisti e gli anarchici e tutte le persone che si sono unite a questo o a quel fenomeno popolare”. Il fulcro del libro nasce dal carattere internazionalista della Sinistra che, soprattutto negli Usa (ma un po’ ovunque), porta con sé una contraddizione e un nodo mai sciolti sul rapporto con gli aspetti della sicurezza, della guerra e dell’imperialismo. Per cui l’autore, partendo da uno dei momenti storici più rappresentativi di questa contraddizione, cioè l’intervento armato in Afghanistan dopo l’11 settembre del 2001, elabora quasi in modo psicanalitico il conflitto interiore della Sinistra sui temi, strettamente connessi, di guerra e politica estera. Per lo studioso americano i rappresentanti della Sinistra “si sentono per lo più a casa loro nel loro paese; la nostra politica è incentrata sulla natura della società nazionale […], non abbiamo mai avuto una buona padronanza della politica estera o delle politiche per la sicurezza”. Dunque la Sinistra se la cava meglio “con le questioni globali nel caso in cui assomigliano maggiormente a questioni nazionali”, come quando si oppone alla “disuguaglianza, allo sfruttamento del lavoro e alle pratiche antisindacali all’estero” o nelle questioni ambientali. Il problema di coscienza si presenta alla Sinistra quando deve decidere “l’eventuale uso della forza. Si tratta di qualcosa che la maggior parte di noi non vuole affrontare” e a dimostrazione porta la campagna di Bernie Sanders per le primarie del Partito Democratico. In questa contraddizione c’è, per l’autore, un vizio ideologico sbagliato, perché “l’abilità di prendere sagge decisioni sull’uso della forza è essenziale per la sicurezza”: i decisori saggi optano “per la pace ogni volta che è possibile, ma qualche volta optano per una guerra fredda, qualche volta per l’uso della forza senza una guerra, qualche volta per la minaccia della guerra e qualche volta per il dramma della guerra stessa”. Questa saggezza politica per Walzer “non è in sé militarista né pacifista (né una via di mezzo). Essa richiede l’impegno costante per la conciliazione e il compromesso finché possibili”. Walzer vede in questa combinazione di fattori un problema e una contraddizione perché alcuni pezzi di Sinistra si definiscono sostenitori di guerre di rivoluzione, a volte avallano atti violenti o di terrorismo utilizzati da movimenti di liberazione (spesso in luoghi remoti). Ecco, dunque, che nella politica estera l’uso della forza diventa una contraddizione spesso insanabile, che mette la Sinistra in una crisi di identità che può finire per produrre incertezza. Quindi, in questi casi, si rifugia nel “sostegno dato alle Nazioni Unite e alla Corte penale internazionale”, come nel caso degli attacchi dell’11 settembre quando, molta parte della Sinistra americana, voleva “affidarsi a queste istituzioni anziché agire unilateralmente o con gli alleati più stretti contro Al Qaeda”. Con queste premesse, per Walzer “la Sinistra ha perso la bussola”. Come la ritrova? Lui ha un “programma modesto: mettere la decenza al primo posto”. Il che, in atti concreti, si traduce nella necessità di ritrovare una ideologia; di trasformare l’alienazione e l’impotenza in atteggiamenti di critica radicale e incisiva, diventando anche un po’ selvaggi; smettendo di biasimare l’America, attribuendo a essa la responsabilità di ciò che va bene o male nel mondo. In questo modo la Sinistra deve convincersi che “se diamo valore alla democrazia, dobbiamo essere pronti a difenderla, in patria ovviamente, ma non soltanto lì”. Dall'agenzia "9 Colonne"

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