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Deputato nelle file dei Ds e sottosegretario al Tesoro e al Bilancio al tempo del governo Prodi, Isaia Sales si è occupato delle problematiche economiche e sociali del Mezzogiorno. Il suo libro rientra, però, più in generale, nel dibattito sempre vivo sulla natura e le contraddizioni del riformismo italiano. Un dibattito che raramente si traduce in analisi distaccata. E il testo di Sales in questo non fa eccezione, muovendosi tra la nostalgia di una stagione riformatrice passata e rimasta inconclusa, la difesa orgogliosa delle potenzialità mai del tutto valorizzate del Sud e l'attacco ad personam che individua in Massimo D'Alema il principale responsabile del dérapage istituzionalistico e dirigistico della sinistra degli anni novanta.
Nelle elezioni politiche del '92 il Sud confermava ancora Dc e Psi, mentre il resto del paese dava i primi chiari segni di disaffezione. Solo nelle amministrative del '93 si poté assistere a un vero e proprio terremoto elettorale meridionale. Momento cruciale, secondo Sales, fu la morte di Falcone e Borsellino, che innescò sentimenti di protesta e volontà di riscatto senza precedenti. Dieci anni dopo, tuttavia, ritroviamo il vecchio Sud, "immobile, conservatore, ministeriale". La storia di tale regressione fa del Mezzogiorno, agli occhi di Sales, la "cartina di tornasole delle debolezze del riformismo italiano". Tra il '96 e il '98 il governo Prodi avviò coraggiose politiche territoriali di sviluppo per il Meridione, incentrate sulla valorizzazione del "capitale sociale" locale. Ma i dirigenti nazionali dimostrarono, in breve tempo, di non avere abbastanza fiducia nella governance meridionale. Prevalse quella che Sales definisce la "cultura macroeconomica": la riforma era vista come un percorso che doveva partire dal centro e diramarsi in periferia. Dopo alcuni passi promettenti, dunque, il centrosinistra si pose in una prospettiva meramente istituzionale, aderendo agli slogan federalistici, senza puntare fino in fondo, invece, sulla società civile.
È stato questo l'esito - sostiene l'autore - della cultura dirigistica di Massimo D'Alema e della sua avversione per la cosiddetta "antipolitica", etichetta con cui è stata bollata qualsiasi iniziativa politica al di fuori dei dettami del partito e dei suoi "professionisti". Si spiega così anche il duro scontro con Cofferati, il quale ha espresso un'istanza riformistica proveniente "dal basso". La conclusione di Sales, argomentata con intelligenza, ma frutto, come si diceva all'inizio, più di un appassionato giudizio politico che di una riflessione disincantata, è che il riformismo dalemiano sia "senz'anima" perché "senza popolo". Il partito nato dall'iniziativa di Occhetto aveva conosciuto, sin dall'inizio, due schieramenti ben distinti: quello degli autentici "riformisti" e quello dei "continuisti", ovvero di coloro che giustificavano la svolta soltanto come "dura necessità". Sales, naturalmente, colloca D'Alema in questo secondo campo. Rimanendo fedele alla tradizione del vecchio Pci togliattiano, incline al controllo dei conflitti, al compromesso e a una modalità di azione rigorosamente interna ai canali istituzionali del paese, il leader della sinistra ha dimostrato, a suo parere, di voler essere "l'erede del Migliore".
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