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Ritornano le tigri della Malesia (più antimperiali che mai) - Paco Ignacio II Taibo - copertina
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Ritornano le tigri della Malesia (più antimperiali che mai)
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Ritornano le tigri della Malesia (più antimperiali che mai) - Paco Ignacio II Taibo - copertina
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Descrizione


Il portoghese Yanez de Gomera e il principe malese Sandokan vedono minacciati i loro beni, le loro stesse vite e quelle dei loro amici quando subiscono l'attacco di una misteriosa forza maligna che si manifesta attraverso una nebbia verde e lascia dietro di sé una scia di cadaveri. I due vecchi pirati libertari sono allora costretti a richiamare a raccolta le Tigri della Malesia per intraprendere quella che si presenta come la più pericolosa delle loro avventure. Una vera e propria discesa agli inferi su un'imbarcazione che porta il nome di La Mentirosa. Ben presto incontreranno Friedrich Engels, il professor Moriarty, sottomarini minacciosi, società segrete cinesi, Rudyard Kipling, i postriboli della Cambogia, gli orangutan del Borneo, trafficanti di schiavi, una sopravvissuta della Comune di Parigi, fondamentalisti islamici, filologi greci, la flotta militare britannica, filosofi stoici, piante carnivore, messaggi cifrati, banchieri filippini alleati di José Marti, spie antimperialiste... Paco Ignacio Taibo II sceglie di scrivere, sotto forma di pastiche, un nuovo capitolo della saga salgariana. Un intreccio di avventura, sesso e politica, dove coesistono lo spirito ribelle e antimperialista del narratore, l'attenzione alla Storia e i grandi modelli del feuilleton ottocentesco.
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Dettagli

2011
27 gennaio 2011
351 p., Brossura
9788855801553

Valutazioni e recensioni

Recensioni: 1/5

Un testo balzato agli onori della cronaca, con ampia pubblicità su giornali e tv, ma che risulta fin troppo bene essere niente altro che un manifesto politico (di sinistra, nean-che a dirlo), rispettando infallibilmente tutti i dogmi del caso. Con la pretesa poi di attualizzare la scrittura dello scrittore veronese (secondo Taibo schiava e costretta dal bigottismo di fine ottocento), si infarcisce il tutto con bestemmie, sesso e maleparole. Cominciamo dall’introduzione; Taibo dichiara che la stesura del romanzo è stata preceduta da una scrupolosa raccolta di informazioni su testi, racconti di viaggi, enciclo-pedie e una “meticolosa rilettura della saga salgariana di Sandokan […] e del seguito scritto da Luigi Motta” (perché poi leggere Motta? O perché non leggere gli altri epigoni e falsari?). Eppure a me non sembra. Dopo siffatta ricerca come si può scrivere che Sandokan è malese ed è nato a Sarawak? (mentre è bornese ed è nato nell’odierno Sabah) Che il figlio di Yanez si chiama Soares? (mentre si chiama Soarez) Che il marito di Darma è Sir Westmoreland? (mentre è Sir Moreland) Che i tigrotti impugnano solidamente il “parang, il lungo machete a doppio filo”? (mentre il machete è arma tipicamente sudamericana e il parang ha un filo solo) Che il fedele mastro dei vecchi prahos si chiama Sambliong? (mentre si chiama Sambigliong) Che Kaidangan, il padre di Sandokan, è stato ucciso per ordine di James Brooke e che la Tigre ha assistito impassibile al suo funerale? (mentre Brooke non c’entra niente con la tragica storia della famiglia di Sandokan. Kai-dangan fu assassinato dai sicari di un europeo, quello che verrà chiamato solamente “rajah del lago”. Impossibile vi siano stati dei funerali, dal momento che si trattava di una guerra per il regno di Kini-Balù) Che Kammamuri “era un animista, praticamente prossimo all’ateismo”? (mentre è un seguace di Visnù) Che Sandokan era stato educato “come mussulmano? Ovviamente no,…”? (ovviamente sì! Sandokan crede in Allah e Maometto, se pure a suo piacimento) Che Charles Brooke è figlio di James? (mentre è il nipote) Ce ne sarebbe abbastanza per allontanare ogni appassionato salgariano dalla lettura di questo obbrobrio. E anche ogni onesto lettore dovrebbe considerare che nella stesura di un romanzo storico, specialmente quando si ha a che fare con elementi reali o appartenenti ad altra letteratura, la ricerca di fonti e documentazioni è un’operazione da non sottovalutare. E non venitemi a parlare di licenze poetiche! Vi è poi tutta una serie di intromissioni che niente hanno a che fare con Salgari, ma che non possono mancare in un testo d’indottrinamento politico o in una rivista di partito, incluso il biasimo per le attività dei “nemici”, e dei “nemici” stessi. Si comincia ovviamente con la politica nuda e cruda, quando l’autore segnala l’appropriazione indebita dell’opera salgariana da parte del Fascismo e dei suoi “deliri im-periali” . Mi sembra però cosa naturale, se si considera il ciclo dei pirati della Malesia in chiave antibritannica, che il regime di Mussolini abbia innalzato i romanzi di Salgari ad opera fondante della “cultura italiana” dell’epoca. Inoltre è bene ricordare come l’indole espansionistica e imperialista dell’Italia fascista è in perfetta sintonia con quanto auspicava il giovane Salgari nell’età giolittiana, quando lavo-rava come cronista nelle redazioni dei giornali veronesi. Seguono quindi gli altri cardini della più pura cultura revolucionaria, come la lotta ai cosiddetti “padroni” o “poteri forti”, la rinnegazione di qualsiasi dio e religione, il sesso libero come contrapposizione al falso perbenismo borghese, che saranno affrontati di seguito. Taibo dichiara come accentuerà “la tensione politica e la pulsione anticolonialista delle avventure delle Tigri” . Ma questo è un elemento assolutamente secondario nella letteratura salgariana ed io davvero non riesco a trovare questo slancio politico di cui parla Taibo. Quel che è certo è che i luoghi comuni sorti nel tempo, che vogliono gli eroi salga-riani come paladini del bene assoluto che lottano contro le ingiustizie, non sono veri in maniera assoluta. I personaggi di Salgari, sebbene abbiano un codice etico che spesso coincide con gli ideali di giustizia universale e di libertà, non si danno soverchio pensiero di ciò che accade intorno a loro in termini politici e/o sociali. Hanno le proprie vendette e i propri tormenti di cui preoccuparsi. Sono semplicemente dei simpatici “egoisti” da romanzo, non modelli da lotte di classe. Dicevo di interventi esterni e improbabili, di cui i più fastidiosi sono le parentesi sessuali, che l’autore prova a giustificare nella sua introduzione dicendo che i testi salgariani sono “decisamente intrappolati nelle convenzioni della letteratura per ragazzi ottocentesca a cui […] non poteva sfuggire”. No, mio caro tovarish Taibo, l’opera salgariana non nasce come letteratura giovanile. Per-tanto le sue aggiunte vergognose se le tenga per lei e non ci venga a raccontare che mancano dalle avventure dei pirati della Malesia per via delle “convenzioni ottocentesche”. Sandokan (inteso come archetipo del personaggio salgariano) non va a puttane perché è nato con la morale pudica e censoria del XIX sec., ma perché fa dell’amore puro, quello romanticamente inteso (da romanzo appunto) un principio di vita: ama una sola donna, una e una soltanto, la sposa e quando questa esce di scena, cessa ogni sua ambizione amorosa. Non manca poi l’elogio del turpiloquio, che culmina con bestemmie più o meno velate e imprecazioni di dubbio gusto. Infatti, secondo l’autore, attualizzare l’opera di Salgari, “significa […] l’uso di nuovi insulti”. Il linguaggio scurrile e le parolacce di Sandokan e compagni, ancora una volta non sdoganano l’opera salgariana dal contestato bigottismo dell’800. Tolgono invece il fascino orientale (non è infinitamente più bello “Saccaroa”?) e goliardico (talvolta), reso da altre espressioni di disappunto come “Corpo di Bacco!” o “Tuoni di Giove!”. Ma come ho detto, certe creazioni di Taibo che frammentano questo racconto, non fanno che confermare l’idea che l’autore segua semplici imposizioni prescritte dalla sua cultura politica. E tra queste non manca l’avversione per il colonialismo europeo di Taibo (manifestate però dalle parole delle Tigri) che troppo spesso sfocia quasi nell’odio razziale verso i bianchi: Sandokan è abituato a sputare per terra quando parla degli europei , condizionato dai brutti ricordi che ha dei suoi precettori presbiteriani, che non esistono. Non si recita fino infondo la parte dei compañeros se non si combattono i centri di potere: il nemico numero uno dei pirati di Mompracem diventa così la Banca d’Inghilterra , e ogni re o sultano, europeo o non, è considerato un imbecille in quanto investito di “autorità, […] tutta quella merda lì” . Un romanzo che brilla della luce riflessa del successo di Capitan Emilio, ma che è povero anche di trama e costrutto narrativo. Lei ha voluto dare ad intendere che attualizzare un libro scritto nel XIX introducendo “nuovi insulti”, sesso e quant’altro lo rendesse più leggibile. Non prendiamoci per il naso, su! Siamo onesti. Lo dica apertamente: ciò lo rende (forse) più “vendibile”… Ma questo lei non poteva dichiararlo liberamente, giusto? O sarebbe entrato anche lei in quella categoria che tanto depreca, quella dei “capitalisti”. Capitalisti della letteratura che azionano la macchina libraria senza curarsi del prodotto finale e della sua qualità. Lo specchio dell’attuale editoria, insomma… Questo libro, il cui successo è ormai garantito da un ampio battage pubblicitario, merita tutto il rimprovero della comunità salgariana ed è addirittura più scabroso di tutti i falsi romanzi attribuiti a Salgari che videro la luce negli anni successivi alla morte del grande scrittore d’avventura.

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