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recensione di Rosato, I., L'Indice 1993, n. 7
Una navigazione nella stagione più inclemente, dalle foci del Tevere alla Gallia devastata dalle scorrerie dei Visigoti, in un anno che potrebbe essere il 415 o il 417. E lo scenario del poemetto di Rutilio Namaziano, "De Reditu", "Il ritorno", pubblicato nella collana di poesia Einaudi per le cure di Alessandro Fo. Fo procura una convincente traduzione dei distici, mentre nella bella introduzione e nelle note dà conto esaurientemente del retroterra culturale e storico del poeta; infine, dove necessario, riaffronta alcune questioni testuali, intervenendo sulla lezione.
L'autore, il gallo Rutilio, esponente dell'aristocrazia conservatrice e pagana tra IV e V secolo, appartiene a una stagione di poesia - ricorda Fo - "quasi interamente dimenticata, quella tardolatina". Al suo oblio hanno cospirato la fine della civiltà di cui quella poesia era epigono, il naufragio dei manoscritti, l'ostinazione nell'uso della retorica. Questa inattualità, stilistica ma soprattutto ideologica, rispetto all'epoca in cui si produsse è ciò che ai giorni nostri, tempo di svolte non meno inquietanti, reca fascino al testo di Rutilio. Il ritorno del patrizio in Gallia è in realtà un viaggio senza ritorno: Roma, "ciò che piace senza fine", si allontana per sempre. Sfilano davanti agli occhi del navigante le vestigia spettrali di un passato che lui e la sua cerchia non riuscivano a immaginare altrimenti che eterno. Dove erano un tempo i templi degli dèi e il rispetto degli uomini balenano invece presenze scontrose, incomprensibili: un giudeo querimonioso che venera un "dio sfinito", monaci cristiani catturati da una fede che agli occhi di Rutilio pare un regresso allo stadio ferino. Altro che "impero alla fine della decadenza", che guarda passare i grandi barbari bianchi componendo acrostici indolenti. In questi versi, pur così classicamente sorvegliati, l'antichità al tramonto scaglia verso il mondo nuovo i suoi ultimi strali.
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