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Dopo quarant’anni di frequentazione, tra libri letti, amati e tradotti, Paolo Nori scrive il suo Corso sintetico di letteratura russa, che di accademico ovviamente non ha nulla.
«E quando ho letto il primo romanzo russo che ho letto, Delitto e castigo, quarant’anni fa, non era come Giulio Verne, a me piaceva molto anche Giulio Verne, non era come Fitzgerald, a me piaceva molto anche Fitzgerald, non era come Sciascia, allora mi piaceva moltissimo Sciascia, no: faceva più male. Per quello, credo, ho letto più libri scritti in russo che libri scritti in qualsiasi altra lingua, per il male.»
Esilarante e rocambolesco, sbilenco e a suo modo intimo, passa in rassegna le idiosincrasie e il genio dei grandi autori: da Puskin che per primo e forse per caso abbandona l’aristocratico francese per scrivere «nella lingua dei servi della gleba», creando di fatto il romanzo russo, a Erofeev che in piena dissoluzione dell’Urss riempie di bestemmie un capitolo del suo Mosca-Petuški, mettendo però cortesemente in guardia le lettrici; da Tolstoj che in una lettera dice di non poterne più di scrivere «la noiosa, la triviale Anna Karenina» a Dostoevskij che si considera «un uomo felice che non ha l’aria contenta». Eppure se anche davvero I russi sono matti, hanno creato in appena due secoli una delle più grandi letterature mai esistite, capace di cogliere l’umorismo tragico dell’esistenza e di togliere l’“imballaggio” alle parole, restituendo loro tutta la forza poetica perduta nell’uso, di cogliere l’intraducibile byt (diciamo per semplicità: la vita) nel suo farsi, di costruire romanzi pieni, come diceva un detrattore di Puskin, di «scenette insignificanti da vite insignificanti», ma che forse proprio per questo ancora oggi ci sembrano più veri del vero.Indice
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