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Anno edizione: 2016
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Libro pesante . non si capisce nulla. Non c e una trama .abbandonato a metà.
Dopo aver letto più di 500 pagine delle oltre 1200 mi è venuta in mente una citazione del film La Grande Bellezza: "non ho più tempo di fare cose che non mi va di fare". Abbandonato
Da non leggere. Inutilmente prolisso, ripetitivo, privo di struttura. Un ammasso di considerazioni addizionate stancamente, poche interessanti, molte scontate. Ne esce svilito soprattutto il premio Strega.
Recensioni
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Ci sono romanzi che gravitano attorno a un buco nero: un nucleo che esercita un’irresistibile forza centripeta riconducendo a sé le linee dell’intreccio, e al tempo stesso un sasso gettato nella realtà, dal quale si originano cerchi concentrici sempre più ampi. Anche La scuola cattolica appartiene a questa categoria. Il suo buco nero è la villa del Circeo dove il 29 settembre 1975 Angelo Izzo, Andrea Ghira e Gianni Guido sequestrarono e seviziarono per un giorno e una notte Rosaria Lopez e Donatella Colasanti (...).
La cronaca del massacro compare per la prima volta a pagina 473, e viene dopo, nell’ordine: la presentazione di una classe di preadolescenti maschi del San Leone Magno, che alle soglie della pubertà sognano ossessivamente il corpo delle donne ma sono soggetti a una feroce educazione alla virilità che è innanzitutto educazione all’omosocialità; improvvisi affondi analitici nella psicologia dello stupro; lunghe analisi del declino della famiglia borghese nella topografia benestante del quartiere Trieste di Roma (...). Sarà chiaro a questo punto che La scuola cattolica nasce dall’ambizione di radiografare un periodo storico preciso in un luogo preciso a partire dagli indici che il delitto del Circeo vi proietta come ombre e che sono per Albinati le chiavi di accesso alla sua generazione, o meglio, ai maschi della sua generazione: il sesso e la violenza, nel momento in cui il sesso cominciava a corteggiare la violenza e la violenza a inglobare il linguaggio del sesso, facendo esplodere in forme eclatanti l’eterno conflitto tra i generi.
L’ambizione di questo assunto ne farebbe in potenza un perfetto esempio di romanzo-saggio, come infatti è stato definito. Si tratta invece di un romanzo che non crede abbastanza in se stesso da diventare un saggio e di un saggio che non ce la fa a trasformarsi in romanzo perché non dimentica mai di essere un saggio. È come se Albinati svolgesse il suo teorema tre volte: la prima nella forma del Bildungsroman, la seconda in quella della riflessione psico-sociologica, la terza in quella della narrazione memoriale – tre forme discorsive, forse non a caso, che escludono la dialogicità: la prima e la terza perché sono il discorso di uno solo, la seconda perché è il discorso di tutti, quindi in definitiva di nessuno. Tra una voce narrante saccente e incerta, ma onnipresente (...) e la voce impersonale del senso comune, che spaccia per sentenze le proprie ovvietà, a smarrirsi è proprio l’arte del romanzo, quell’arte per cui, secondo Milan Kundera, mentre lo scrittore tiene alle proprie idee e alla propria voce, il romanziere non dà grande importanza né alle une né all’altra, ma insegue una verità che ancora non conosce.
Recensione di Beatrice Manetti
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