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Session 9 è una pellicola molto psicologica capace di fornire un buon carico di tensione e di colpire nel finale. C'è da dare atto a Brad Anderson che confeziona opere sempre interessanti. Questo film è il terzo lungometraggio del regista americano ed il primo a prendere una via intricata dopo un paio di commedie romantiche; indicato banalmente come horror, in realtà questo è un thriller pervaso da un sottile gioco psicologico, sorretto da una valida sceneggiatura (scritta dallo stesso Anderson) e da un'ambientazione di tutto rispetto, vale a dire il vero Danvers State Hospital, abbattuto giusto qualche anno fa e già malconcio a dovere da costituire una location malsana da film dell'orrore senza alcun bisogno di lavorare sulle scenografie. Forte di queste frecce al proprio arco, il film punta parecchio sulla regia buonissima di Anderson e sul lavoro delicato degli attori, fra cui eccellono gli esperti Mullan e Caruso, per mascherare la pressoché totale assenza di effetti speciali e dunque costruire la tensione passo per passo, senza sbracare e senza cercare il colpo ad effetto. Pochissimo sangue, atmosfera tesa, sublime arte di arrangiarsi, angosciante colonna sonora dark-ambient e un finale ben congegnato portano ognuno il proprio mattone al buon risultato, che tale non è stato per il pubblico: alla sua uscita nei cinema, nel 2001, fu uno dei primi film ad essere girato completamente in digitale. Incassò davvero poco ed è diventato un'opera di culto solo qualche anno dopo (fortunatamente). Film insidioso, che lavora di sottecchi fra le maglie di una suspense studiata in maniera al contempo spontanea e complicata, è una sorpresa da non sottovalutare e un prodotto ragguardevole nel suo genere.
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