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Il saggio di Gianni Rigamonti elimina le incrostazioni filosofico-scientifiche e fa piazza pulita di quel senso comune che ci porta ad accettare (non si sa bene perché!?) l’idea che il tempo sia lineare. Lo stile limpido e sbarazzino, caratteristica stilistica di Rigamonti, consente che il libro venga letto anche da un pubblico non specialista, che assaporerà i riferimenti a filosofi come Aristotele, Cartesio ed Hegel, a elementi di meccanica quantistica, a intermezzi musicali, senza sentirsi spaesato o troppo ignorante. Il volume è diviso in due parti: nella prima Rigamonti riflette sul linguaggio a partire dalla tesi saussuriana della linearità del segno linguistico; la seconda parte è invece centrata sul tempo: dal momento che l’ordine lineare del segno parlato è temporale, l’attenzione si è spostata dal linguaggio al tempo. La prima parte del libro indaga, con molti esempi concreti, gli aspetti non lineari del segno linguistico, per arrivare ad affermare che «nella proposizione il tutto è la configurazione delle parti, le parti sono le componenti del tutto e né l’uno né le altre sono alcunché al di fuori di questa correlazione» (p. 53). Ciò significa che nel segno linguistico il tutto e le parti sono interdipendenti e si determinano necessariamente in maniera reciproca; analogamente, passando dalla linguistica alla meccanica quantistica, le azioni degli elettroni all’interno di un atomo determinano gli altri elettroni e a loro volta ne sono determinati, ovvero «non c’è asimmetria causale tra parte e tutto, ma azione reciproca» (p. 59). L’analisi sul tempo si apre con una riflessione sui suoi elementi costitutivi; Rigamonti individua nella coppia “prima-dopo” il fondamento del tempo: questo presupposto è di tipo sia soggettivo sia oggettivo dal momento che, se è vero che la polarità “prima-dopo” è una categoria psicologica, è pur vero che le cose si succedono secondo il “prima-dopo” a prescindere dalla nostra soggettività. Dopo avere delineato una tassonomia dei diversi sistemi cui è possibile dare il nome di “tempo”, con un’interessante digressione sull’io e il tu, l’autore avanza un’audace ipotesi in contrasto con una consolidata tradizione filosofica: che il tu preceda l’io, cioè che l’individuo prima di avere la percezione di se stesso, abbia la percezione degli altri esseri pensanti. A questo punto Rigamonti con una panoramica dal breve al lungo delle diverse forme di temporalità si sofferma ad analizzare due tipi di tempi brevi, la musica e la poesia, per metterne in luce le analogie; la vita e la memoria come esempi di tempi lunghi finiti, il tempo della fisica classica come esempio di tempo lungo infinito e il tempo della fisica quantistica. Quello che emerge da queste analisi è che non esiste un tipo di tempo come «pura esteriorità reciproca delle parti o, che è lo stesso, linearità pura» (p. 185). L’autore ci porta quindi a rivedere i nostri pregiudizi sulla natura del tempo, che non è puramente lineare, cosa che già Marcel Proust aveva capito. Accettare l’idea che passato, presente e futuro sono contemporaneamente significa allora restituire un senso al mondo, dal momento che così come «una cosa per essere fisicamente reale ha bisogno di tre dimensioni spaziali non nulle, e se anche una sola delle tre si riducesse a zero quella cosa non sarebbe più, così ha bisogno di un’estensione temporale non nulla, di una durata; e durata vuol dire successione di momenti distinti ordinati secondo il “prima” e il “dopo”» (p. 204). Secondo questa lettura, il tempo non è quindi un fuggire via di istanti che si annullano a vicenda uno dopo l’altro bensì compresenza di presente, passato e futuro che formano un “tutt’insieme” in cui le parti sono legate necessariamente fra loro e non si danno le une senza le altre. Per spiegare il motivo per cui questa caratteristica del tempo è stata ed è tuttora trascurata, Rigamonti ipotizza nella conclusione “seria e seriosa” due ragioni, una di ordine logico e una di ordine etico: la prima riguarda l’utilizzo della filosofia analitica e la sua capacità di astrazione; la seconda chiama in causa addirittura la paura della morte. Il lettore che non si accontenti della conclusione seria ne troverà un’altra “non seriosa” che apre scenari inquietanti, ma che riguardano (forse) un futuro troppo lontano per preoccuparsene.
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