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Furono oltre un milione gli italiani coinvolti nelle deportazioni durante la seconda guerra mondiale. Come sottolinea Tranfaglia nell'introduzione, esse comportarono un ruolo attivo del regime fascista, svolto, in parte, anche autonomamente rispetto all'alleato tedesco. La pratica di internamento e di deportazione, in Italia, ebbe inizio con gli ebrei stranieri e proseguì, dal maggio 1940, con quelli italiani. Come è noto, venne creata una rete composta da una cinquantina di campi, quasi tutti nell'Italia centromeridionale, lontani dalle grandi città e dalle zone di importanza militare. Nel '43 il governo Badoglio non annullò i cinque decreti legge, le quattro leggi e i sei articoli del Codice civile in cui si compendiava la legislazione razziale italiana. Alla fine di agosto, inoltre, la Santa sede autorizzò il gesuita Tacchi Venturi, che era stato confessore e consigliere spirituale di Mussolini, a incontrarsi con il ministro dell'Interno Umberto Ricci, per ottenere dei cambiamenti nella legislazione razziale. Non però la sua abolizione, perché alcune disposizioni venivano considerate dal Vaticano "meritevoli di conferma". Mayda dedica infine due capitoli alla deportazione politica e all'internamento dei militari italiani. Tra questi ultimi, solo 50.000 su un totale di circa 700.000 accettarono di aderire alla Rsi per uscire dai campi. Tra i motivi, il rancore nei confronti del fascismo e dell'ex alleato nazista. Ma soprattutto la fedeltà, come militari, alla patria e al re.
Giovanni Borgognone
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