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Splendido. Avevo già apprezzato l'abilità di Vassalli ne La Chimera.\nUn autore che vale la pena scoprire e Riscoprire più volte
Se a qualcuno capiterà di leggere il libro subito dopo aver visitato il Museo Leone non potrà non notare come i Campi Raudii descritti nel libro non fossero poi così brulli e incolti, visto che i notabili locali mettevano pietre di confine con iscrizioni in due lingue (latino e celta), doveva esserci un certo livello di coltivazioni dei campi. Da qui a giudicare in parte l'opera più come letteratura che come divulgazione storica il passo, personalmente, é stato breve. E come tale il risultato non é esaltante, ammiro la capacità coinvolgente della scrittura di Vassalli e stimo il lavoro di preparazione svolto, ma anche per me "La chimera" era di un livello superiore.
Sono un estimatore dell'autore ma mi dispiace dover dire che da Vassalli ci si può e deve attendere di più. Ha confezionato un romanzo che, a parte il merito di aver fatto luce su un fatto storico decisivo per le sorti di Roma (e per cui attribuisco un punto in più del minimo), sembra scritto per ottemperare a qualche vincolo editoriale, di malavoglia. L'intento didascalico è fin troppo evidente e continuamente rimarcato (quante volte ripete che la vicenda avviene seicentocinquantadue anni dalla fondazione di Roma?); la storia d'amore che si innesta sui fatti storici è troppo prevedibile; i personaggi non hanno spessore; un uso inconsueto della punteggiatura ingolfa la lettura invece di renderla più scorrevole. Insomma, per il mio metro di paragone: la chimera sta a terre selvagge come il barolo sta al tavernello.
Recensioni
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Giovanni Tesio
Vincitore del Premio Flaiano 2014
Sebastiano Vassalli è un maestro nella creazione di mondi. La sua scrittura è narrazione avvolgente, affabulazione e confidenza, è costruzione, passo dopo passo, di architetture e orizzonti. Narratore più che scrittore, vincitore del Premio Strega nel 1990 con il romanzo La chimera (Einaudi), torna alle stampe con un romanzo storico appassionante e intenso, dedicato a uno dei periodi più affascinanti della vicenda umana.
Siamo nel 101 a.C., anzi nel 652mo anno dalla fondazione di Roma, e ci troviamo in quelle che Vassalli chiama le “terre selvagge” e che gli storici romani chiamavano, senza meglio specificare il luogo, i Campi Raudii. Si tratta del nome antico con cui veniva identificato il Piemonte, la parte di Pianura Padana attraversata dalla Dora, dal Sesia, dal Tanaro oltre che dal Po. In questi territori boscosi e putridi, terreni alluvionali risultati dal passaggio di molti fiumi a carattere torrentizio, avvenne una delle più sanguinose battaglie dell’esercito romano contro un popolo barbaro: il popolo dei Cimbri. Un episodio che vide affrontarsi due grandiosi eserciti e il cui racconto è pervenuto fino ai nostri giorni in una versione edulcorata, o forse ampiamente rimaneggiata, da parte di coloro che poi la storia l’hanno scritta: i romani.
Sebastiano Vassalli si mette sulle tracce di questa antica leggenda e ci porta in mezzo alle legioni dell’esercito romano guidate da due consoli molto diversi tra loro. Da una parte c’è l’esercito guidato dall’aristocratico Lutazio Catulo e dal suo braccio destro, il giovane Silla. Un gruppo demotivato che ha già subito sul Ticino un’umiliante sconfitta. Dall’altra, direttamente dalla Gallia, l’esercito vittorioso guidato dall’Homo novus della politica romana, Caio Mario, che è riuscito con l’astuzia a sterminare e disperdere gli eserciti dei due principali alleati dei Cimbri, i Teutoni e gli Ambroni. Adesso i due eserciti, uniti sotto la guida del coriaceo Mario, attendono nell’accampamento, nelle terre selvagge, lo scontro decisivo con i terribili Cimbri guidati dal giovane Boiorige.
Il loro principale nemico è la paura. Paura della statura imponente di questi barbari, della loro fama che li accompagna da vent’anni e dei loro canti di morte che di notte, dagli accampamenti, riecheggiano per tutta la valle. I romani non sanno che anche i Cimbri stanno vivendo dei momenti di forte sconforto. Stanchi e stremati, dopo aver attraversato le Alpi hanno perso la metà dei loro uomini e molti dei loro armamenti. Hanno perso anche le tracce dei loro alleati, ma soprattutto hanno trovato laggiù, sulle rive del Po, ai piedi del monte Ros (il monte Rosa) la terra che i loro dei hanno loro descritto come la terra promessa.
Attaccare l’esercito romano ed arrivare fino alle porte di Roma è un’impresa che non tutti si sentono di compiere e che forse sta a cuore solo al loro ambizioso re Boiorige e a sua moglie, la bella Rhamis. Tutti sanno che lo scontro finale inevitabilmente porterà alla rovina di uno dei due popoli.
Oggi, dopo migliaia di anni, cosa ci resta di questa storia? Le terre selvagge non esistono più, le paludi sono state bonificate e il fiume Sesia domato da decine di ponti. I terreni sono stati coltivati, a partire proprio da quella riforma agraria voluta da Mario e di cui beneficiarono i grandi latifondisti, come Silla, protagonisti vecchi e nuovi di tutte le storie del mondo. In quelle terre scelte dai Celti come loro patria ideale morirono centoquarantamila nemici. Cosa resta di quei corpi? Cos’avranno da raccontarci gli eroi di questa storia? A volte, sostiene Vassalli, per comprendere cosa abbiamo davanti ai nostri occhi, è necessario guardarsi indietro.
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