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Tra le tante qualità nell’immaginare storie di Brian K Vaughan, sceneggiatore tra le altre di Saga e di Sentinelle di Inverno, quella che ogni volta riesce a colpire e sorprendere è il suo saper costruire distopie che diventano allegorie potenti del nostro quotidiano. L’America del 2076, protagonista di un suo ricchissimo The Private Eye, è reduce da un diluvio che ha cambiato il mondo per sempre. Quaranta giorni e quaranta notti di pioggia, dai Cloud, hanno vomitato sulla terra ogni email, ogni informazione personale narcisisticamente, e più o meno consapevolmente, registrata on line. Improvvisamente ogni ricerca fatta on line, ogni interazione fatta sotto l’ombrello chiamato internet, è di dominio pubblico. Informazione totale, tutti hanno accesso a tutti i segreti di tutti. Confidenze, vizi, tradimenti, perversioni. Tutto quello versato in rete torna facendo danni. L’intuizione di Vaughan - intuizione semplice eppure geniale - diventa abito ideale per una storia Pop Noir raccontata in 16:9, magnificamente illustrata da Marcos Martin e colorata da Muntas Vicente. (The) Private Eye, intreccia infatti elementi noir imprigionati in un mondo senza connessione e nel quale il bene più prezioso è diventato la privacy. Un elemento che conquista è la dettagliata costruzione della società che ruota attorno ai protagonisti. La necessità di proteggere la propria identità - ad esempio - ha trasformato le città in una sorta di colorata festa cosplay nella quale tutti indossano maschere. La tutela della privacy, portata all’estremo, costringe le persone a nascondersi dietro alias, gusci che proteggono le identità assieme scelte e passioni che ci raccontano. Le persone come copertine di libri senza titolo che restano non letti. Se il risultato sia un mondo migliore non è una valutazione che l’autore esprime, ma l’occhiata sul mondo post-diluvio è dettagliata al punto da lasciare al lettore l’incombenza del giudizio.
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