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Amo Zweig. Devo però ammettere che questo volume mi è piaciuto un po' meno rispetto al resto della trilogia, "Sovvertimento dei sensi" e "Ventiquattro ore nella vita di una sconosciuta". L'ho trovato un po' meno introspettivo.
"Non è detto che il destino, per distruggere il cuore umano, debba menare il colpo brutale e usare tutta la sua violenza; da futili motivi anzi esso trae la sua indomabile gioia creatrice. Nel nostro linguaggio umano questo primo lieve tocco lo chiamiamo causa, e stupiti confrontiamo la sua piccola misura con gli effetti spesso straordinari di potenza. Ma come la malattia esiste prima di manifestarsi apertamente, così il destino non comincia solo quando diventa realtà visibile e concreta. Esso impera nello spirito e nel sangue assai prima che dall'esterno arrivi all'anima. Riconoscersi è già difendersi, e per lo più è invano". L'esplosione dell'incipit inchioda da sola nella sua luce di profondità assoluta. Da lì al resto delle pagine prende avvio una china di delirio, malattia, impreparazione alla vita, al senso perduto di una paternità equilibrata, ai desideri di crescita e slancio di una figlia che si affaccia alla vita, al rintocco del tempo e alle vertigini interiori che pian piano trasformano un florido borghese stimato in uno stinto e desolante fagotto in balia di se stesso. Breve e intensissimo apologo di morte, la tratta che dall'incerto ma calmo ordine del cuore precipita nel gorgo della totale follia, il seme di un male inaccettato che divora ogni lucido gesto. "Vedeva solo le sue mani sul tavolo, le care mani; fini e curate, come levrieri viziati, giocavano mollemente sulla tovaglia bianca". Nulla più riesce a tenersi nello spirito di un padre che non sa leggere le ore dello sviluppo nel ventre di una figlia. Sarà una condanna, sarà il bisturi della fine di dentro che scaverà in una voce già uccisa la realtà della morte concreta. Luce e baratro, spesso coincidenti nei libri di Zweig, qui si stringono e si ritrovano, perdutamente.
L'immagine scelta per la copertina (un particolare di "Signora con ventaglio" di Gustav Klimt) potrebbe risultare fuorviante, ma l'ambientazione della storia raccontata (anni 20 del 900) e la comprensibile necessità di attrarre potenziali lettori mi fanno pensare che si riveli adeguata. La definisco fuorviante perché questo racconto ci mostra e ci descrive, in modo implacabile, duro, ma al medesimo tempo scorrevole e coinvolgente, quanto di più lontano dalla leggerezza e serenità ispirata dalla figura femminile ritratta possa essere vissuto da un uomo. "Tramonto di un cuore" fin dal suo incipit, che considero uno dei migliori, dei più incisivi che ricordo di aver letto, ci fa entrare nel vortice di pensieri e sensazioni del protagonista, il tarchiato agente di commercio signor Salomonsohn, e del suo autore, l'austriaco Stefan Zweig. Attenzione alla resa della psicologia del protagonista, sia all'interno della riflessione su sé stesso, sia nella rappresentazione del suo rapporto con gli altri, la moglie e l'adorata figlia in particolare. È proprio la figlia ad innescare l'irreversibile processo di auto annullamento e "abbruttimento" del padre, sconvolto dallo scoprire che la sua "bambina", quella che gli aveva donato un'altra vita, ha segreti da nascondere e, cresciuta, non rientra più nella sua visione di genitore dedito alla felicità filiale. Una prova di sintesi drammaturgica che giunge direttamente al lettore ed ai suoi piccoli e grandi "drammi".
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