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recensioni di Borsari, A. L'Indice del 2000, n. 06
La raccolta di saggi che Remo Guidieri propone in prima uscita al pubblico italiano si pone in chiara controtendenza rispetto alla vasta letteratura disponibile nella nostra lingua dedicata al paradigma del dono. E, sebbene lo faccia nel contesto di un desolato bilancio, anche autobiografico, delle promesse mancate dell'antropologia e delle scienze sociali (si veda il capitolo introduttivo), mantiene tuttavia uno spiraglio aperto che rimanda in estremo il dono e la sua etica possibile a una prospettiva diversa da quella dell'"alibi per fare e pensare il contrario" alla quale pure l'inchioda sin dal sottotitolo del libro l'analisi di Guidieri, che insegna antropologia a Parigi (Nanterre) e New York (Cooper Union).
Il percorso tracciato dai saggi qui raccolti si snoda lungo un ampio arco di anni della produzione dell'autore, e si muove dalla ripresa nel Saggio sul prestito (1984) delle conseguenze dirette del decennio delle sue etnografie melanesiane (si veda Il cammino dei morti, 1980; Adelphi, 1988), attraverso la rivendicazione polemica dell'originalità della sua prospettiva su Prestito e sacrificio (1997), per approdare alla diagnosi della nostra epoca e del suo linguaggio semplificato e meticcio (Pidgin, 1998) e a quella sorta di metamorfosi della filosofia della storia in geofilosofia dell'Europa intitolata a Ulisse senza patria (inedito, come il testo iniziale) che chiudono il volume. Il tutto segue un movimento stilistico per cui il "linguaggio impervio e scioccante" di Guidieri si fa sempre più apertamente "cursorio", "feroce" e corrosivo, assumendo i toni del pamphlet e dell'invettiva, come ha segnalato la puntuale recensione di Augusto Illuminati (Gli stregoni dello scambio, "il manifesto", 26 ottobre 1999).
Secondo Guidieri, che qui rilegge e decostruisce il maussiano Saggio sul dono (1923-24), il dono di cui parla Mauss non è assimilabile alla moneta, l'equivalente universale di scambio della moderna economia di cui rappresenterebbe l'origine, in quanto le cose scambiate negli esempi addotti da Mauss sono oggetti di natura problematica perché composita, circolano e non circolano, sono contemporaneamente valori e talismani, condensano il tempo e le virtù dei loro possessori. Neppure è assimilabile al contratto, che non è equivalente allo scambio, ma deriva semmai in termini roussoviani dalla necessità di alienare un diritto per instaurare simultaneamente le convenzioni che fondano il diritto e la nuova libertà che esso consente. Il dono di cui parla Mauss è invece, afferma Guidieri, "prestito usuraio": "L'errore di Mauss comincia quando, per ragioni che difficilmente si comprendono, egli vuole che un prestito sia un dono, che la reale positività di quest'ultimo sia omologata con l'obbligo terribile che l'usura impone a colui che vi ricorre, a rischio della propria libertà, per avere ciò che non ha. Ecco dove comincia l'usura: quando il desiderio, il bisogno di avere, è tanto forte che per soddisfarlo mettiamo in pericolo anche la nostra anima". La posizione di Mauss mostra così per Guidieri di presupporre un'antropologia, nel senso di una concezione dell'uomo, nella quale il dono si rivela come una forma di competizione fra gli individui. In questa lotta per il riconoscimento, secondo il modello individuato da Hegel, l'uomo del desiderio impegnato nella dialettica servo-padrone cerca di essere riconosciuto dagli altri. Nel dare e rendere differiti nel tempo dello scambio - prosegue la critica di Guidieri - si mette in moto "una prestazione che impegna, un atto che vincola, instaurando una dialettica in cui l'idea stessa di un 'dono libero' diventa un nonsenso" e "proprio perché nella relazione non c'è libertà, si instaura la 'reciprocità' e si intrecciano legami positivi e necessari". Nessun dono risulta pertanto realmente disinteressato e - conclude il Saggio sul prestito - costringe all'interno di quel "lavoro dell'usura" che "intesse quella singolare rete, allo stesso tempo astratta e coercitiva, in cui il prestito diventa malefico, e il bisogno resta cronicamente inappagato".
D'altra parte la partecipazione tra cosa che circola e agente è, nell'analisi di Mauss, debitrice del pre-logico hau di Lévy-Bruhl, concetto che per Guidieri va criticato in quanto irrispettoso dei dati etnografici, che parlano invece di cose che in effetti non tornano, di un'equivalenza tra una cosa che do e una cosa che ricevo possibile solo come "transustanziazione" che rende somiglianti due cose in realtà differenti. La nozione di hau andrà semmai ricondotta, come accade in Tupu (in Voci da Babele, 1984; Guida, 1990), alla cosmologia polinesiana, dove, in quanto "manifestazione" e "sorgere", è l'espressione diversificata, cioè cangiante, del tupu, della crescita degli enti, delle cose conosciute e visibili, e riflette il problema del modo in cui l'umano dialettizza intellettivamente il visibile e l'invisibile. Rilevando come essa sia il calco della teoria della magia di Mauss, interamente basata sulla nozione di mana, si potrà concludere con il saggio su Prestito e sacrificio che nel caso descritto da Mauss "il presunto mana della cosa equivalga, semmai, al carattere feticistico della merce in contesto moderno", mentre "né espressione dell'occulto né del vacuo, mana piuttosto è il vero della cosa: essere, stato, esperienza, accessibili ed esprimibili. La categoria è un attributo di sostanza, in certi casi equivalente all'attributo di esistenza (che manca in quelle lingue), che concettualmente fissa il manifestarsi dell'authentikòn [inteso etimologicamente come 'ciò che produce da sé'] che la vista, l'intendimento conoscono".
A sua volta il sacrificio va per Guidieri sottratto a qualunque visione che lo assimili a una forma di reciprocità, al compenso, alla restituzione e allo scambio con la divinità in cui si dà un interesse e un guadagno desiderato. Viene a questo punto introdotta, da Bataille, l'idea di spreco. Non consumo ma distruzione, lo spreco coglie la peculiarità di alcune esemplari manifestazioni arcaiche equiparate da Mauss al dono come scambio agonistico, ma viene criticato da Guidieri per la sua ambiguità nel riconoscere alla violenza un ruolo imperativo e trasgressivo ponendo allo stesso tempo la distruzione sotto l'egida di una finalità omeostatica di equilibrio, di un eccesso messo cioè al lavoro con astuzia hegeliana contro l'eccesso stesso. Secondo Guidieri il vero sacrificio sarà perciò quello che comporta - come del resto vuole il senso comune - rinunciare a qualcosa che si possiede, poiché sacrificare non è nutrire ma distruggere e, per quanto dall'esterno possa apparire assurdo, in esso c'è la perdita e non il profitto; è questa l'assurdità dei santi e di coloro che sanno rinunciare, di quelli che hanno perduto la loro vita per un ideale. Il sacrificio consiste così non in uno scambio reciproco, ma in un "orientamento", in un "arcaismo tetico che avvicina per eccessi l'indeterminato", e la "domanda di colui che accetta di perdere apre all'indeterminato": "la vicinanza, o solo la volontà di avvicinare l'indeterminato comporta l'eccesso. Spreco, rischio di fallire, di perdere, di perdersi". Di converso, il vero dono è per Guidieri una "perdita secca", "giuridicamente un'assurdità" nella quale "l'atto si compie senza tornaconto" e l'essenziale è la rinuncia, che significa "alienare definitivamente qualcosa senza altro contraccambio che l'effetto procurato", dato che la riconoscenza non si può ancora considerare debito. Se il dono così inteso vincola, sarà in "termini mimetici": "quel ricevere non implica un rendere. Ricevo e cercherò di dare allo stesso modo: il dono insegna il dono. Il vero dono, il dono come matrice del dono è antropologico in quanto atto specifico della specie: la riproduzione. Così la relazione genitore-
discendente".
Prende forma in questo modo l'abbozzo di un'altra direzione etica per il dono cui si accennava all'inizio. Essa chiede certamente di essere approfondita, anche nelle sue premesse: come andrà intesa per esempio la mimesis, la "facoltà mimetica" che essa coinvolge? Ma sembra altresì porre l'esigenza di mettere in questione altri spunti divergenti che pure accanto a essa coesistono. Soprattutto la scelta di situarsi dal punto di vista di quella originaria apertura di senso alla quale rimandano tanto l'apparizione dell'autentico, del mana, nella memoria-oblio della possessione, quanto l'orientamento verso l'indeterminato della relazione sacrificale. Il quale, se fornisce l'approdo a una gratuità scevra di interesse, rischia però di appiattirsi su un'etica sacrificale che porta a parlare indifferentemente di rinuncia, perdita e sacrificio, senza distinguere tra sacrificio e autosacrificio, l'unico caso in cui è possibile mettersi dal punto di vista di chi sacrifica mantenendo la capacità di "mettersi nella pelle della vittima". Che senso ha infatti insorgere, come accade qui, contro la rimozione della violenza, confinata e addomesticata da noi per continuare a correre feroce fuori dal "nostro castello incantato", se non quello di riconoscerla come parte integrante del nostro stesso comportamento, d'accordo con Simone Weil che "non ritenersi immuni dalle colpe dei padri è la condizione per amare ed essere giusti"?
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