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libro banale una descrizione di una introspettivitá stantia e noiosa. sembra di leggere un continuo rimuginio mentale con emozioni descritte ma non sentite. si può tranquillamente non leggere. libro tutta testa senza anima o cuore.
Tanto triste quanto profondo.
Barnes ritorna ai temi a lui cari della memoria e del modo in cui ognuno di noi costruisce la storia della propria vita, e lo fa utilizzando uno stile diverso per ognuna delle tre parti in cui è diviso il romanzo (scelta che, me ne rendo conto, può risultare irritante).
Recensioni
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A cura di: Il Rifugio dell'Ircocervo
«Abbiamo tutti un’unica storia da raccontare. […] E questa è la mia.»
Spara in alto, Julian Barnes. Trama di L’unica storia, in poche parole: un ragazzo di diciannove anni si innamora di una quarantenne, lei ricambia, si amano, poi si amano un po’ meno. Detto così, e considerata la premessa, è legittima una certa delusione. Viene da pensare che un autore di quel livello non può essersi accontentato di così poco, deve esserci per forza qualcosa, un punto di torsione che solleva il libro dal terreno del poco più che banale. Eppure questo romanzo è esattamente quello che sembra: duecentoquaranta pagine sulla storia d’amore, non sempre felice, di un ragazzo e di una quarantenne.
Vero che si vede il postmoderno in cui lo scrittore è nato e cresciuto: il romanzo è diviso in tre parti, in ognuna delle quali cambia la persona della voce narrante (in ordine: prima, seconda, terza singolare), suggerendo un effetto di allontanamento che fa pendant con il graduale allontanamento sentimentale di Susan e Paul, i due protagonisti. Ma un artificio di scrittura non vale di per sé un romanzo riuscito – anzi (e qui con un brivido sfioro la presunzione) viene il dubbio che la complessità strutturale derivi piuttosto da una segreta insicurezza, dalla paura di fare troppo poco. Se così fosse Barnes non avrebbe dovuto preoccuparsi, secondo me: avrebbe potuto tenere il libro interamente in prima persona, dall’inizio alla fine, e la potenza non sarebbe stata dissipata.
Il pulsare profondo di questo libro è altrove; il motivo che ci spinge a leggere pagina dopo pagina, nonostante non succeda niente di apparentemente sensazionale, non è certo lo stupore di una persona narrativa che cambia. Capire quali siano questi epicentri, questi generatori nascosti di potenza, significherebbe capire a fondo la scrittura di Julian Barnes; quindi abbasso il livello di presunzione e mi limito a tentare un elenco sommario (tre).
Il primo sono i dettagli di cui qualsiasi storia d’amore deve essere intrisa (il torneo di misto doppio di tennis, il soprannome “Casey”, gli anomali tic linguistici di lei: “comiski?”), perché qualsiasi amore nella vita come nella narrativa ha il suo corredo di piccole unicità, è particolare, mai sovrapponibile a quello accanto. È questo a catturarci, più di qualsiasi colpo di scena: la storia raccontata ci appartiene perché ha tutti i tagli sartoriali che ci consentono di infilarcela addosso come una nuova pelle.
Il secondo epicentro è la lingua, quel miscuglio di narrazione e ragionamento sentimentale-esistenziale, tipico dell’ultimo Barnes, che forse trova l’esempio più avanguardistico in Livelli di vita (alcuni lettori più inflessibili lo troverebbero palloso per la quasi totale assenza di fatti) e che qui invece raggiunge un amalgama mite, senza niente togliere al piacere della lettura, ma aggiungendo un paio di gradi di profondità alla vita interiore del protagonista («Che cosa preferireste, amare di più e soffrire di più; o amare di meno e soffrire di meno?»). E questo è essenziale: è la lezione che, in termini diversi, discende da Salinger, dalla lingua messa in bocca a Holden Caulfield – un marchingegno che ci dà l’illusione di movimento, mentre in realtà siamo rimasti impantanati tutto il tempo in una formazione mancata, in un non-passaggio all’età adulta (o, nel caso di Barnes, in un amore qualsiasi).
Il terzo epicentro è proprio il coraggio del luogo comune. Di più, il coraggio di andare fino in fondo al luogo comune: il romanzo racconta questo rapporto sentimentale che nasce, ce lo espone nel corso del suo lento appassimento, ne mostra la parabola discendente, contraddicendo l’equazione che vorrebbe un amore adultero come un amore impetuoso: qui l’entusiasmo dell’adulterio si ribalta, diventa amore tiepido e quotidiano, fino a dirigersi altrove, nel finale – all’ipotesi che qualunque storia, per quanto unica, può conoscere, più o meno dolorosamente, la necessità di una fine.
È un’operazione, quest’ultima, che solo i grandi possono realizzare. Gli scrittori medi evitano i cliché; i cattivi scrittori ci cadono dentro; i grandi scrittori li ribaltano. E Julian Barnes è uno dei più grandi scrittori del nostro tempo: a lui è concesso immergersi anche nei punti morti, perché sa tenersi a galla con eleganza e uscire con le mani grondanti di vita.
Recensione di Pierpaolo Moscatello
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