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La musica è prima di tutto poesia. Deve emozionare. Chi corre il rischio di trascurare l’emozione per inseguire una “completa” attendibilità storica o filologica che dir si voglia, commette a mio parere un errore madornale. Bach sul pianoforte ? Ovvero sul “gravi cembalo col piano e col forte”!!! Per alcuni una blasfemia. Ma Bach indicava in partitura il “piano” e il “forte” in alcune composizioni per strumenti diversi dalla tastiera, dunque perché escludere del tutto che lui avesse in mete, ovvero sognasse, nel comporre musica per clavicembalo, di realizzarla su uno strumento di cui semplicemente non disponeva, e solo per questo “accidente storico” ripiegasse a comporla per clavicembalo? L’idea farà storcere il naso a molti, ma l’ascolto di questo splendido disco di Maria Perrotta me l’ha suscitata, e io la dico! Me l’ha suscitata perché esegue Bach sul pianoforte e sfruttando, anche se con parsimonia e senza uscire troppo dal seminato del rigore storico, ciò che il pianoforte permette. E così riesce a piacermi. E così fa poesia. E chi se ne frega se i filologi grideranno allo scandalo. Uso del pedale anche se parco, ma soprattutto differenziazione del tocco e delle dinamiche. Esecuzione di tutti i ritornelli prescritti. Tempi generalmente non vertiginosi ma neanche lenti. Queste le caratteristiche sue salienti. E queste caratteristiche mi hanno suggerito di tentare un confronto sulla carta improbo: per analizzare meglio la sua interpretazione, per cercare di capire perché mi è piaciuto così tanto questo disco, ho pensato di confrontarlo con una interpretazione che mi pareva, così a memoria, se ne discostasse molto: nientepopodimenoche, udite udite, quella di Glenn Gould. In particolare la sua registrazione per la Columbia del giugno 1955, per molti reputata la sua migliore e, di conseguenza, un capolavoro probabilmente “inarrivabile”. Certo, non concluderò la mia recensione dicendo che la Perrotta è “arrivata” a questo “inarrivabile”. Ma, semplicemente, perché in musica non si possono fare classifiche, e alla fine quello che conta, per orientare le preferenze, è il proprio gusto personale. Ovvero cosa ciascuno di noi cerca nell’ascoltare la musica. Bene. I tempi, dicevamo. La prima parte dell’Aria nell’esecuzione della Perrotta dura circa 1 minuto e 10 secondi, circa 51 secondi in Gould. Unitamente a un suono più secco e clavicembalistico, che Gould mi pare persegua quasi costantemente, è quanto basta,a quest’ultimo, per renderla meno malinconica, dolce, nostalgica di quanto Perrotta ottenga. Ma ci sono variazioni in cui la “forbice” dei tempi si allarga; addirittura la Variazione 9 di Perrotta dura un minuto, solo 37 secondi in Gould!! Questo testimonia scelte fatte dall’artista canadese certamente originali e sappiamo quanto siano state di rottura e poi anche di esempio; ma, cavolo, se parliamo di rispetto del testo, dovremmo ricordarci che quella variazione in partitura ha come indicazione di tempo “moderato”, e mi pare che Gould disattenda tale indicazione. Gould propone un suono meno “romantico”, ma usa tempi forse estremi. Ecco, credo che categorizzare e usare compartimenti stagni nel dare giudizi critici sia in ogni caso una forzatura; entrambi gli interpreti sono “autentici” in certe cose meno in altre; il timbro cercato da Gould lo è certamente di più di quello della Perrotta, ma alcune scelte agogiche del primo mi sembra siano a volte “provocatorie”, mentre le libertà timbriche che si concede la Perrotta non sono fini a se stesse ma sono al servizio della comunicativa, dell’obiettivo di emozionare l’ascoltatore. Proprio la Variazione 9 ce lo dimostra: si ascolti come tra la prima esposizione e il ritornello ci sia un cambio di dinamica e come mutino le parti/voci che vengono evidenziate fornendo una ricostruzione molto plastica, direi “prospettica”, della musica. Non dirò certo che Gould non ne sarebbe stato capace; ma è un fatto che, semplicemente, le sue scelte interpretative di base gli impediscono a priori di creare questi “effetti”. Ci sono alcuni casi in cui i tempi sono simili, ad esempio la Variazione 17; e addirittura nella 25 Gould è estremamente più lento. Ma questo consolida l’impressione che la capacità di commuovere della Perrotta più che fondarsi su tempi più comodi e quindi “lirici”, è l’effetto di modifiche dinamiche e timbriche tra esposizione e ritornello; Gould i ritornelli non li esegue, quindi non possiamo sapere come li avrebbe realizzati. Ma qualche supposizione la possiamo fare perché un po’ di indizi li abbiamo; ad esempio nella Variazione 21 i tempi son simili, ma nella seconda parte in Gould manca del tutto quel cambio di tocco e di dinamica che ne dà un colore così splendidamente differenziato nel disco della Perrotta. E che meraviglia i cambi di colore e di atmosfera che quest’ultima ci fa ascoltare nell’evolversi della Variazione 30! Dicevamo dunque del rispetto del testo. Nella musica per clavicembalo, mancando tale strumento della possibilità di “piano” e di “forte”, non erano indicati i crescendo e diminuendo. Non deve mai l’interprete, dunque, realizzarli? La Perrotta mi fa propendere per una risposta negativa a tale domanda; una delle cose più meravigliose di questo disco è il passaggio dalla Variazione 19 alla 20: trovo che la condotta melodica di queste due variazioni sia simile, e la Perrotta sfrutta questa somiglianza creando tra essi un raccordo bellissimo che emoziona proprio grazie a un lento, graduale crescendo che realizza nelle prime battute della Variazione 20; esso è del tutto assente in Gould, in cui la dinamica rimane costante, così come è assente nella Variazione 26, costruita invece dalla Perrotta con un crescendo della prima parte che sfocia in un ritornello eseguito “forte” ma a cui ci si è, appunto, arrivati gradualmente. Gould dunque, su questo versante, rispetta “la lettera” certamente di più, ma a mio gusto la poesia ne soffre. Certo, il pianista canadese è più chiaro e pulito e tale chiarezza a pulizia risalta in special misura nelle variazioni più veloci e virtuosistiche; i trilli e i vari “salti mortali” della Variazione 14 sono sgranati dalla Perrotta con precisione leggermente inferiore, ma, cavolo, si tenga presente che la registrazione della pianista italiana è stata fatta durante un concerto live (a proposito, io, al Teatro Valle, quella sera, c’ero!! Chissà se tra i “bravo” che si sentono alla fine c’è anche il mio…), e questo non può non essere rilevante. In ogni caso, alla Perrotta non le manca il coraggio, cosicché la Variazione 14 stessa dura solo pochi secondi in più (al netto dei ritornelli, chiaramente), e così è per altre variazioni virtuosistiche. Insomma Gould sul piano della originalità e soprattutto della tecnica non si batte, ma…ma come dicevo, le preferenze dipendono solo dal gusto personale, e mi sembra che io, in questa recensione, abbia lasciato intendere cosa cerco nella musica…. Bach conclude il suo capolavoro con l’ “a capo” dell’Aria, e io concluderò la mia recensione riferendomi proprio al pezzo conclusivo dell’opera. Peter Williams, nel libro Bach: The Goldberg Variations (2001, Cambridge University Press), scrive che "la bellezza inafferrabile e sfuggente delle Variazioni Goldberg ... viene rinforzata da questo ritorno all'aria. .... La sua melodia è pensata per risaltare su ciò che è stato ascoltato durante le ultime cinque variazioni, è probabile che ciò appaia nostalgico, frenato, rassegnato o triste, sentito sulla sua ripetizione come qualche cosa che sta arrivando alla fine, con le stesse note ma ora conclusive.". Ebbene, Gould realizza la ripetizione dell’aria con tempi sostanzialmente uguali alla sua prima presentazione, mentre la Perrotta ottiene un’atmosfera più accorta sia con un diverso tocco che rallentando in modo evidente l’andatura: così, solo così, io sento davvero “le stesse note, ma ora conclusive”, c’è davvero quel “qualcosa che sta arrivando alla fine”…. Eduardo
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