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Napoli. Fine inverno 1992 – fine primavera 1995. Giovanna Trada è nata il 3 giugno 1979, quando i genitori Andrea e Nella avevano lui 32 e lei 30 anni. L’esile padre è professore di storia e filosofia nel liceo più prestigioso di Napoli, intellettuale abbastanza noto in città, disponibile a molto richieste lezioni private per arrotondare il modesto stipendio; la madre insegna latino e greco in un altro liceo, corregge bozze di storie e romanzetti rosa, e talora ne scrive, per arrotondare a sua volta. Vivono nei quartieri benestanti, in cima a San Giovanni dei Capri al Rione Alto (sopra il Vomero); le hanno spiegato tutto sulla sincerità e sul sesso, leggono tantissimo, fanno spesso riunioni importanti fuori e dentro casa, sono legati ai colti benestanti coetanei Mariano e Costanza con le due figlie Angela e Ida, pensano con cura se devono dire qualcosa, cercando di mantenere sempre gentilezza e proprietà di linguaggio.
Una sera di febbraio 1992, Giovanna, che è in terza media e non va molto bene a scuola pur studiando molto, ascolta per caso una frase che nella loro camera il padre (due anni prima di andarsene poi di casa) dice sottovoce alla madre a commento dell’informazione sul deludente risultato dei colloqui con gli insegnanti. «L’adolescenza non c’entra», Giovanna «sta facendo la faccia di Vittoria», ovvero della brutta e malvagia sorella minore (quasi 40enne). La dodicenne si sente sconvolta e ferita in un periodo di fragilità e svogliatezza: da un anno ha avuto le prime mestruazioni, si vergogna per come si sente cambiare dentro e fuori (odori e languori, seno in crescita, capelli e peli in trasformazione), adora i genitori e soprattutto il padre che le hanno dipinto una zia pessima povera sciatta, infrequentabile, tenendola dunque a distanza, nei quartieri bassi con gli altri parenti. Impara a dire bugie, decide di conoscere Vittoria e diventa Giannina, per la zia e per un po’. Vittoria, in realtà, è alta e bella, vive nel ricordo del grande amore Enzo insieme alla di lui moglie vedova Margherita e ai figli del matrimonio, Tonino, Corrado e la splendida Giuliana fidanzata con il mitico Roberto di cui s’invaghisce, primo vero amore.
Chiunque sia, Elena Ferrante è napoletana di fatto e diritto, forse; nata nella prima metà degli anni cinquanta, forse; oggi probabilmente la più brava scrittrice italiana, certo quella di maggior meritato successo, nazionale e internazionale. I suoi romanzi sono ruvidi e trasudano lividi, slabbrature, smargini. Ne La vita bugiarda degli adulti, pubblicato dalla sua casa editrice di sempre, la e/o, Ferrante narra meravigliosamente in prima, un continuo flusso di coscienza momentanea e retrospettiva, in questo caso in parte un filo di un racconto adolescenziale reinterpretato, in parte un dolore arruffato e senza redenzione. Affronta i momenti essenziali di tre anni importanti, individueremo poco del prima e sapremo nulla del dopo, solo che Giovanna è viva e pensa ancora molto. Con acume e interesse incontreremo alcune di quelle persone che la circondarono allora, non i compagni di classe e i docenti al liceo del Vomero, non altri amici e conoscenti inevitabilmente frequentati, solo le relazioni essenziali e funzionali.
Non è e non ha un’amica geniale, impara sola a non essere più bambina. Scopre il chiacchiericcio supponente dei colti, gli amori molesti, i giorni dell’abbandono, la genitorialità e la figliolanza oscure, le frantumaglie della coscienza adulta in cui sta entrando, chi fugge e chi resta, i mille modi di stare (male) al mondo, la vita bugiarda a tratti di tutti i grandi piccoli uomini (e donne), da cui il titolo. A ogni nitido ricordo delle scoperte di quegli anni, accenna a quel che “oggi” potrebbe forse aggiungere, da donna, 25 anni dopo. Non fa sconti: lei e ogni personaggio risultano ovviamente “impuri”, doppi o plurivalenti nei comportamenti concreti e nella comunicazione affettiva. L’autrice è stata capace di inventare un genere letterario proprio, al confine di tanti e questa è la forte continuità con i quattro volumi che l’hanno resa famosa nel mondo. Così non manca nemmeno un filo noir, un “falcone maltese” luogo tutto il racconto, il braccialetto d’oro, di origine e influsso contrastanti. Si fanno azioni che sembrano azioni e invece sono simboli. E alcuni pensieri sprigionano a volte una forza latente, afferrano immagini contro la tua volontà, te le spingono per una frazione di secondo sotto gli occhi. Da leggere!
Recensione di Valerio Calzolaio
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