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L'autore racconta le pseudo biografie di 23 personaggi di vario genere, pirati, un frate, una ricca matrona, artisti, condensando ognuna in meno di 10 pagine, senza demarcare una linea tra realtà e fantasia. Alla fine però, per quanto ben scritto, sembra un elenco troppo schematico e poco coinvolgente.
Grande mistificatore, sognatore, abile falsario, inventore di genio, manipolatore nonché amante della bibliografia più illustre: Marcel Schwob, misconosciuto autore adelphiano, è uno di quei rari casi letterari in cui il genere agiografico sposa l’elemento irrazionale, tanto caro alla casa editrice milanese, che nell’ultimo mezzo secolo ne ha fatto un baluardo in termini di forma. Le "Vite immaginarie" di Schwob, di primo acchito, ricordano le "Vite parallele" di Plutarco, ma in realtà sono tutta un’altra cosa. Lo scrittore francese tratteggia tanto le esistenze di grandi personaggi dell’antichità e della prima modernità come quelle di anonime figure fuori dal tempo e dallo spazio, in un’esegesi laica che annette ad ogni vita raccontata capacità straordinarie, rituali, taumaturgiche. Per ogni personaggio si pone un dilemma riguardante la bontà della sua opera: in altre parole, le gesta degli uomini vanno giudicate per quel che realmente producono o contestualizzandole nella combinazione di virtù e peccati cui giocoforza sottostanno? Il dilemma sembra risolversi solo attraverso il teorema adiabatico. La scrittura è di eleganza sopraffina. Un classico che merita altissimo rispetto, e che non dovrebbe mancare nelle librerie dei "palati più fini".
Schwob, fantasista inveterato, mostra che l'immaginazione non ha limiti. Collezionista di storie e di esseri umani - che serba nel taschino, estrae e tiene, meravigliato e signorile, sul palmo della mano come un piccolo dio o un bambino che si balocca con le molliche -, sembra trarre vivo piacere e autentica gioia dal suo estro di "talk-man". Altrettanto facile, immediato è il gradimento di chi si smarrisce in questa galleria di ritratti finemente ironici, sempre eleganti - uno stile che fa pensare allo spadaccino che danza, menando colpi -, che hanno, tra le molte virtù, quella di mostrare l'uomo, ignoto alla storia o eternato che sia, inerme alla sua fine, malgrado escogitazioni e scuotimenti. Ho incontrato con piacere maggiore, in ordine di gradimento: Erostrato, il maggiore Stede Bonnet, le maniere dei signori Burke e Hare, Empedocle, Cyril Tourneur, Paolo Uccello - che ha l'animo dell'artista di "The Oval Portrait" - e Pocahontas, il miglior ritratto femminile della galleria
Recensioni
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Il genere del catalogo ha origini antiche – ci arriva del resto dai tempi in cui si pensava di poter agilmente catalogare il mondo – e nei secoli si è evoluto in fine gioco letterario. Si tratta infatti di un’arte che richiede equilibrio tra analiticità e selezione, gusto del bizzarro e amor di rilevanza, nonché tra nozione storica e invenzione, potendo agire sui molti gradi che vanno dal “tutto vero” al “tutto falso”.
Due le case editrici italiane che ne coltivano la tradizione. Sulla sponda più classica, e orientata sulle persone, Adelphi: suo Vite immaginarie di Schwob; suoi La sinagoga degli iconoclasti e Lo stereoscopio dei solitari di Rodolfo Wilcock; suo La letteratura nazista in America di Bolaño. Sul piano contemporaneo, e più orientato sugli eventi, c’è Quodlibet, che ci ha dato Morti favolose degli antichi e Vite efferate di papi di Dino Baldi, o ancora Incontri coi selvaggi di Jean Talon, e presso cui esce oggi il Catalogo delle religioni nuovissime, dove Graziano Graziani, già autore dell’utopico Atlante delle micronazioni, esplora l’universo dei più astrusi nuovi culti.
di Vanni Santoni
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