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Anno edizione: 2009
Anno edizione: 2021
Anno edizione: 2021
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L'asprezza mondo contadino emerge con forza dal capolavoro di Cavani. Zebio Cotal è un rude contadino dell'Appennino modenese. in cui la cattiveria ha preso il sopravvento. Il libro racconta le vicende di Zebio e della sua famiglia segnate dalla miseria e dalla violenza. Un romanzo duro e poetico al tempo stesso che affascina e conquista.
Questo libro racconta della terra in cui vivo: delle colline del Frignano, della sua gente, dei suoi cieli, delle sue costruzioni di sasso, della sua vegetazione. È quindi facile immaginare fin da subito il coinvolgimento che ho avuto. Ma c'è di più, sopra queste pagine c'è una storia densa di tristezza descritta con sincera e ammirevole poesia. Una vera e propria potenza letteraria che preme sul petto e toglie il respiro. Conoscevo Cavani di fama, ma mai avevo avuto l'occasione di leggere questo suo breve ma immenso romanzo, e ora che ho vissuto l'esperienza mi sento di consigliarlo vivamente a tutti; che siate di queste terre o no poco importa, quello di Cavani è un linguaggio semplice, evocativo, crudo, efficace e pieno di coscienza estetica.
Fissarla per bene, cedendo al nero degli occhi. Carezzarne la corteccia di pelle, irruvidita dal sole. Scorgere, alla carne, ferite tracciate dalla fatica. Sentir affannare stanchezza. Tornare al cupo di uno sguardo addolcito. Avere di fronte una bestia, avere di fronte Zebio Còtal: “Tirare, tirare sempre, con la frusta alle reni; farsi rodere dalla strada e senza mai arrivare a capire perché, per vivere, si debba sopportare tanta fatica”. Svilire una madre che è santa in silenzio, battere a cinta un figlio che è destino ammalato, ripudiare a bestemmie un paese che è covo d’invidie. Avendo nel sangue la rabbia e tra le mani miseria. Non mente Guido Cavani, non mente in questo piccolo capolavoro per-duto del Novecento italiano: la sua scrittura è vera quanto vera è la terra e la maledizione di ararla, aspettandosi grano, ricevendo gramigna. Si dimentichi, allora, l’onestà contadina, la bellezza cam-pestre, la fatica fraterna e si legga del tozzo di pane lucrato all’affamato in digiuno, del pietrame di polvere dissossato a colpi di zappa, della mano negata per fastidio al fratello in disgrazia. Così da comprendere, infine, che la bestia attentamente fissata, bastarda di rogna e tanfo di terra, non è più bestia del posto del mondo in cui Dio l’ha costretta randagia: “Il piazzale era ancora deserto; il ven-to continuava a frustare sibilando le case e gli alberi già nudi. Un cane, di pelo nero, attraversò ug-giolando il sagrato, con la coda fra le gambe e le orecchie abbassate; passandogli vicino allungò il muso e lo guardò un istante tremando, con due occhi sofferenti: una folata più violenta delle altre gli arruffò il pelo e lo fece scappare. Zebio afferrò con ambo le mani il cappello per fermarlo e se lo calcò in testa. Tutte le porte erano chiuse, non c’era un’anima viva, il borgo sembrava deserto”.
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