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Anno edizione: 2012
Anno edizione: 2010
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Erudizione trasformata in una tessitura di storie legate da un vagabondaggio semiautobiografico, un divagare per strada e sulla carta che ha pochi eguali, lavoro sulla memoria personale che incontra fatti, persone e ossessioni al cospetto dei moti della storia. Tutto lascia traccia, anche se flebile o solo pensata, tutto è irrimediabilmente caduco e perciò stesso sublime. Da leggere e rileggere. Grandissimo Sebald.
Radicatosi nel Suffolk inglese (East Anglia), pur non avendo smesso di scrivere in tedesco, W.G. Sebald vedeva la madrepatria dalla prospettiva dell’esule: – un romantico walseriano Wanderer alle prese con le ‘sortes germanicae’, ma armato solo del desiderio di camminare e camminare e ancora camminare, lungo un angolo di terra da scoprire in un tempo malinconico, se non perpetuamente tragico; in una “notte del tempo” per la quale l’unico senso della vita era «vivere», e «camminare» il più sublime modo di essere vivi. Mentre insensata, al di sopra del viandante e del suo paesaggio, era la forestiera morte. Siamo in un periodo successivo alla grande guerra, ma sempre avviluppato nell’ombra triste del torpore bellico. E Sebald con il piacere di «guardare» si muove per strade e crocicchi, per la campagna rigogliosa. Ha il puro sguardo che rinviene indizi, ponti sottili verso il passato, amplificazioni di piccole tracce scoperte attraverso il paesaggio, isolate in una rete di impressioni: lo spesso e prolungato tempo dietro alle immagini dei luoghi, sublimato oltre la soglia della riflessione. Ogni suo passo si compie nel modo dell’inquietudine e della pazienza. La sebaldiana ‘metafora del trauma’, paragonabile alla ‘metafora della malattia’ in Petrarca (e in Kafka!), viene a costituire il nòcciolo, cioè l’elemento centrale e più profondo della scrittura. E dalla stessa arriva quel tono etico di malinconica pazienza, di attesa di giungere ad un traguardo, proprio del pellegrino, ma anche e di nuovo del Petrarca, se pensiamo alla sua lenta ascesa al Monte Ventoso. O, in seconda battuta, al viaggio in Terra Santa dal poeta immaginato, ripercorrendo le orme di Omero, Virgilio, Orazio, Lucano…, nell’erudito “Itinerarium”. Un dialogo serrato tra la personalità dello scrittore e i luoghi, la loro progressiva distruzione, ultimo riverbero di una guerra che prosegue con altre forme: meno evidenti, non meno atroci.
Sebald intraprende il suo viaggio pedestre nella canicola di agosto per liberarsi di un ossessivo senso di vuoto: un viaggio che si svolge nello spazio, e lo porta ‘in corpo’, di persona, nella bellezza stanca della natura, col fine di raggiungere, a tratti, certi momenti singolari del passato. Un tempo accentato, tonico; doloroso e rilevatore; tralucente. Tempo e spazio si intrecciano e si scambiano di ruolo, così come al passo su stradine a fondo naturale subentra infine il pensiero. Allora, ogni cammino intrapreso è una divagazione, che scostando la tenda luminosa della natura, guarda nel burrone del tempo invisibile con l’avidità disinteressata di un agostiniano ‘contemplatore dei cieli’. Quel senso di vuoto indeterminato si muta in un singolare bollore di idee, di parole: in un resoconto naturalistico eppure, negli squarci, metafisico. Lungo la strada: lo sciacquio lamentoso dei ruscelli, delle rogge, il verde pieno della gramigna, lo slancio degli alberi, la quiete naturale, e, a quel silenzio, subentrare fruscii d’ali e figure luminose, come il traduttore inglese di Hölderlin Michael Hamburger, profugo anch’egli nel Middleton. Poi, innestata fra gli altri itinerari la vicenda del cranio di Sir Th. Browne, medico ed erudito del Seicento, che era nel teatro anatomico di Amsterdam con il Dottor Tulp. Un Browne confuso fra gli studenti del quadro di Rembrandt; a detta di S., capace di vedere il nostro mondo come non più che un’ombra, immagine di un altro posto al di là, eppure grandemente esperto di cose della natura, delle loro linee isomorfiche, del loro continuo consumarsi—ebbene, di Browne S. ripercorre, con fedeltà all’idea di «percorso», l’odissea del suo cranio (che solo nella nota fotografia di Ch. Williams riposa, privo di denti, su due volumi di “Religio Medici”). Se in qualcuno si è già affermata l’idea che la vita sia un “processo di maturazione alchemica” (Calasso), la curiosa vicenda narrata da S. non potrà che rafforzarla.
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