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Anno edizione: 2010
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Mi accosto a questo primissimo lavoro della giovane (appena 24 anni) artista americana con un misto tra curiosità e timore per quello che di bello, interessante o di “terribile” potrà rivelare, considerato, appunto, che si tratta di un quasi esordio. Le uniche indicazioni che ho sono quelle di una recensione letta ultimamente che lascia ben sperare, quasi ci trovassimo di fronte ad un evento miracoloso. In tempi di quasi appiattimento, il solo richiamo al “miracolo”, potrebbe essere considerato un segno di sana follia! E se invece fosse vero? Se invece Janelle Monaè avesse trovato veramente una formula di ispirazione miracolosa? Ebbene l’ascolto delle 18 tracce di questo lavoro dal titolo “The ArchAndroid”, non tradisce le mie migliori aspettative. Il filo fantascientifico che ispira tutta l’opera è il racconto immaginario dell'androide numero 57821 Cindy Mayweather, alter ego della Monáe, che aveva già visto la luce nel suo precedente lavoro del 2007, Metropolis: Suite 1 (The Chase). Inizialmente concepito come l’avvio di un più ampio lavoro concettuale in quattro suite, dopo avere subito un cambio nel piano di produzione, il tutto viene successivamente rielaborato e riproposto nelle Suite II e III del nuovo disco. Nel racconto (siamo nell’anno 2719!), Cindy Mayweather è inviata indietro nel tempo per liberare i cittadini di Metropolis dal Great Divide, una società segreta che usa i viaggi nel tempo per sopprimere la libertà e l'amore. Questa è la sceneggiatura, la storia, il canovaccio, sul quale la Monaè intreccia le fila di alcune piccole ma preziose perle di moderna musicalità, i cui riferimenti sono i più ampi possibili e per questo assolutamente non etichettabili. Nel laboratorio musicale della giovane artista di Kansas City, attraverso una sorta di superfantacentrifuga, vengono fusi rap, funky, jazz, soul, folk, rithm & blues, in un intreccio i cui risultati mi sembrano assai accattivanti ed i cui referenti sono da trovare principalmente nell’immenso patrimonio della musica black e non solo, passando per certe pennellate proprie della musica per film. Anche i pezzi ritmicamente più sostenuti (penso a “Cold war” o anche a “Tightrope” le hit al momento più note), presentano uno scheletro dalle ossa ben fortificate che, liberato dal corpo degli arrangiamenti in studio, ci restituisce melodie e armonie vere! Per farsene un’idea consiglio la visione di alcune performance live della Monaè, rintracciabili facilmente sulla rete. Nata artisticamente con il progetto di diventare ballerina, di cui nei video ritroviamo traccia, c’è poi un cambio di indirizzo rivolto al mondo della musica in qualità di interprete e autrice. Le ambizioni di questo lavoro, in particolare, sono alte e tante. L’eclettismo di cui la Monaè si fa portavoce può essere al tempo stesso punto di forza e sintesi massima del fattore di rischio che un lavoro di questa natura, per definizione, porta con se. O, ancora, “profezia” di un nuovo approdo della musica pop (qui intesa in un’accezione decisamente meno popolare di quella convenzionalmente utilizzata). La critica americana, probabilmente alla ricerca di una nuova stella, tutto questo lo ha ampiamente sottolineato, in alcuni casi parlando apertamente e senza pudore, di capolavoro. Per quanto mi riguarda The Archandroid è un bellissimo disco. Mi piace il suo sapere far suonare insieme tante cose diverse. Mi piace il suo saperci far ballare, cantare, fermare, saltare, pensare, ascoltare, guardare, sognare, insomma tutto, o quasi, per 70 minuti e poi….un’altra volta ancora!
Recensioni
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