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Primo capitolo della saga dell'agente segreto più famoso a mondo, Fleming ci regala un James Bond molto diverso da quello visto al cinema, un agente segreto alle prime ami, ancora inesperto ma con alcuni elementi che abbiamo già apprezzato al cinema, come l'amore per le donne (e Vesper Lynd è veramente una bellissima Bond Girl). Scritto in maniera semplice e con una tono ironico, la storia ci mostra poche scene d'azione e molte parti in cui ci si sofferma sui pensieri del protagonista, diviso tra l'amore e il suo mestiere, mentre gioca una partita a Baccarat o sorseggia un Vesper Martini. Un ottimo romanzo da leggere tutto d'un fiato.
“Casino Royale” prima avventura dell’agente 007 James Bond, scritto dall’inglese Ian Fleming nel 1953. Questo romanzo contiene tutti i segni del mito che è 007 e, assieme a questi, una scrittura rapida, asciutta e tagliente che condizionerà non poco gli anni a venire. C’è l’icona del grande agente che si mette in moto come una macchina, c’è il dispiego di nemici particolari e grotteschi, c’è il fiorire di organizzazioni e intrecci politici che complicano lo scacchiere. Va premiata la casa editrice Adelphi per la ristampato: ottima traduzione, ottima cura della grafica fedele alle scelte dei tempi in cui Fleming era in vita.
Giamaica, 1952. Tediato, o più probabilmente spaventato, dai preparativi delle incombenti nozze, una mattina di Febbraio un non più giovanissimo Ian Fleming si siede alla scrivania, davanti a quella stessa macchina da scrivere che più tardi avrebbe fatto placcare in oro, e butta giù una storia su cui evidentemente rimuginava da tempo. Nasceva in quel momento un personaggio destinato a cambiare la storia, del cinema più che della letteratura, e a diventare iconico di una professione e di uno stile di vita. Ma tutto questo, quella mattina di Febbraio, Fleming non poteva saperlo. Quello che il nostro nubendo certamente conosceva alla perfezione erano le storie che voleva raccontare e come raccontarle. Giornalista e bibliofilo, e prima ancora broker di borsa e agente segreto della Marina Britannica, Fleming scrive un romanzo nel quale riversa in egual misura esperienze di vita, più o meno autobiografiche, e invenzioni puramente fantastiche, gusti personali, a cominciare da quelli culinari, e desideri inespressi, e finanche qualche inconfessabile perversione. E lo fa con una prosa colta e ricercata, e con indubitabile gusto nello scrivere, accelerando il ritmo dove occorre caricare la tensione, e, qua e la, rallentandolo e compiacendosi in riferimenti colti e in descrizioni minuziose. Come quelle che concernono il “villain” della storia, l’indimenticabile Le Chiffre, che dalle sue pagine sembra quasi prendere vita in tutta la sua smisurata e sudaticcia abiezione, e che rimarrà una delle figure di cattivo meglio riuscitagli. James Bond, in tutto questo, è un personaggio quasi più defilato, una voce fuori campo, un punto di vista narrante nel quale il lettore (e lo scrittore) possa facilmente identificarsi. Del suo fascino magnetico abbiamo solo testimonianza in un paio di rapide descrizioni. Ciò che, invece, affiora fortissima è la sua solitudine: una “solitudine dell’eroe” che gli era imposta dalla professione, e che, per questo, forse lo stesso Fleming conosceva bene. Che emerge nelle giornate concluse da solo nella sua stanza d’albergo, o nei pasti scelti con cura meticolosa e quasi maniacale, e che, in una cena con Vesper, ammette candidamente di consumare quasi sempre da solo. Una solitudine che sembra quasi ineluttabile nella frase tragica e crudele che conclude il romanzo: ci sarebbe da scrivere un piccolo saggio freudiano su una conclusione simile, specie considerando le imminenti nozze del suo autore. Anne, la moglie di Fleming, si sarebbe scherzosamente vendicata qualche anno più tardi, definendo spicciativamente l’intera produzione letteraria del marito: “Ian’s pornography”!
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